Incontro Adriano Ferrero una mattina di fine marzo a due passi da casa mia, a Boves. Iniziamo a camminare sulle colline che dopo l’ennesimo lockdown conosco come le mie tasche. Nel frattempo chiacchieriamo e scatto qualche foto. Adriano è una guida alpina dalla grande esperienza, nonché fondatore della scuola di alpinismo Global Mountain. Voce pacata, magnetica, risata improvvisa e contagiosa. Il genere di persona che ti immagini raccontare storie la sera intorno al fuoco tenendo tutti con il fiato sospeso.

Camminando sulle colline di Boves. Qua siamo al Pasturone. © Valerio Dutto
Com’è nata la tua passione per la montagna?
La montagna non è la mia passione di nascita, quelle che hai in testa fin da bambino. Da bambino volevo andare a cavallo: se vado a rivedere i quaderni che disegnavo all’epoca, che mia madre conserva ancora, disegnavo solo cavalli. La montagna non la frequentavo.
Che cosa fece “scattare la molla”?
Il fatto di viverci in mezzo, a Cuneo. Sono sempre stato un po’ selvaggio. Abitavo al primo piano e, visto che nei primi anni ’70 nevicava parecchio, saltavo giù direttamente dal terrazzo per giocare nella neve. Avrò avuto al massimo 5 anni. Quando ne avevo 13 o 14 al posto di andare a catechismo prendevo la Graziella e scappavo sul Gesso fino a Borgo san Dalmazzo.
La tua famiglia frequentava la montagna?
Per loro le montagne erano una cosa lontana, pericolosa. Parliamo dei primi anni ’70. All’epoca non c’era la conoscenza, anche dal punto di vista sociale. La popolazione cuneese più evoluta frequentava le montagne come escursionista, l’alpinismo era veramente elitario.
Ricordo che le domeniche estive i miei genitori venivano a Boves a comprare degli ottimi ravioli poi, con fornello e tavolino, andavamo a fare la scampagnata nei posti classici: Sant’Anna di Vinadio, il colle della Maddalena. Per la gente comune quello era andare in montagna. Erano gli anni in cui la maggior parte delle persone faceva picnic sul viale di Fontanelle. Le montagne erano vicine, ma lontane.

Ritratto di Adriano Ferrero © Valerio Dutto
Da cosa iniziasti?
Mi avvicinai alla montagna da autodidatta. La domenica prendevo con gli amici il bus per le terme di Valdieri e raggiungevamo i rifugi Remondino e Morelli Buzzi. Un giorno il mio amico Paolo Noro mi disse: «ti porto a vedere l’Argentera». Andammo al Morelli e poi ci arrampicammo, in maniera del tutto sprovveduta, al passo del Chiapous soprano, che non è il passo del Porco, per vedere la cima dell’Argentera.
Iniziai quasi subito ad arrampicare. Erano tutte fughe. L’imbragatura e la mia prima corda arancione da 12 mm, che oggi sarebbe considerata enorme, le comprai di nascosto dai miei genitori. Un desiderio nato leggendo i libri di Bonatti, Maestri, Buhl, alpinisti degli anni ’30-‘50. Parlavano di cadute di trenta metri con la corda di canapa legata in vita: parevano così normali che mi chiedevo come sarebbe stato quando fosse successo a me.
Una delle prime scalate che feci, slegato e con scarponcini di cuoio, è stato il ponte che collega Borgo Gesso con Cuneo. Una cosa rischiosissima. A raccontartela adesso quasi mi prende paura. E non l’ho fatta una volta sola. Forse nell’indole dei ragazzi c’è l’incoscienza. Qualcuno ci lascia le piume, qualcuno, come me, è fortunato.
E le grandi montagne?
L’8 settembre ‘85 ci fu il concerto di Vasco Rossi in piazza d’Armi a Cuneo. Entrammo rigorosamente scavalcando e la mattina dopo, accompagnati dai genitori di un compagno di scuola, andammo ad Alagna. Prendemmo la cabinovia, dormimmo alla Gnifetti e il giorno dopo salimmo ai 4.554 metri di capanna Margherita. Conoscenza dei ghiacciai zero, delle tecniche di sicurezza ancora meno. Non avevo ancora compiuto 18 anni e ci sembrò una bella e faticosa passeggiata. Adesso è tutto differente. E per fortuna: i ragazzini possono fare corsi, imparare in modo più consapevole, crescere nel mondo dell’alpinismo.
Il 17-18 agosto dell’88, durante una licenza dal servizio militare, andai con un amico sul monte Bianco lungo la via normale italiana. In maniera del tutto autonoma. Avevo poco meno di vent’anni.
Comunque monte Rosa e monte Bianco mi hanno dato un’impronta, una voglia di vedere oltre e non fermarsi alle Marittime o alle montagne di casa. Che però rimangono ancora adesso un’attrattiva pazzesca, di scoperta. A me piace l’aspetto selvaggio, questa è la mia caratteristica di vita.
Quello è stato l’inizio di un bellissimo periodo di alpinismo domenicale, vacanze in montagna. Come mi piaceva, come veniva, sognando e progettando salite.

Questa foto l’ho scattata in faccia al monte Matto, nel cuore delle Alpi Marittime, le montagne di casa per Adriano © Valerio Dutto
E lo sci alpinismo?
Iniziai tardi lo sci di discesa. A otto anni la scuola ci diede la possibilità di scegliere se andare in piscina o a sciare. Mia madre disse: «andé a sghijé l’è pericolos, va’ a noé», “andare a sciare è pericoloso, vai a nuotare”. Non mi sorprese, la sua frase tipica era “vai piano”. Per fortuna lo sci di fondo era meno impressionante, quindi andava bene. Mi ci dedicai per anni, spesso uscendo dalle piste battute: gli sci un po’ più larghi e dotati di lamine mi permisero le prime gite al Valasco o al pra del Rasur.
Nell’85 mi iscrissi al CAI. C’è una scena bellissima che ricordo di quel giorno. Andai nell’allora sede di corso IV Novembre: si trovava in un seminterrato, come scendevi le scale venivi investito da un profumo buonissimo di pipa. In fondo a un lungo corridoio si trovava un piccolo ufficio con una scrivania e Matteo Campia, che gestiva i tesseramenti: un omone, capelli grigi, distinto. Per me era un mito.
Gli dissi che volevo iscrivermi. Lui mi chiese che cosa facevo. «Vado a scalare, faccio alpinismo», lui mi guardò e togliendosi la pipa mi fece: «ricordati che c’è anche lo ski d’alpinismo». Lo “ski” d’alpinismo.
Quindi il “tarlo” dello sci alpinismo te lo mise Matteo Campia?
Non so se quello mi mise il tarlo, ma lo ricorderò per tutta la vita. È il mio ricordo di Matteo Campia. Per il resto l’ho conosciuto seguendo le sue vie: le ho ripetute tutte. Un bel periodo. Comunque in quegli anni iniziai a fare sci alpinismo, sempre da autodidatta. In quegli anni lo facevano in pochi, non era diffuso come oggi.
Che cosa ti ha influenzato?
Il movimento torinese “Nuovo mattino” ha prodotto in me una grande trasformazione e evoluzione. L’abbandono della conquista della vetta eroica bonattiana per la ricerca della linea pulita, della bellezza della scalata: Motti, Kosterlitz, Gobetti, Grassi. E poi Edlinger, Berhault e molti altri. Per me erano i padri sovversivi, che si contrapponevano ai Bonatti, Maestri, protagonisti di un alpinismo più eroico e ricco di connotazioni piuttosto pesanti.
In zona i personaggi di punta di questo alpinismo fuori dalle regole del CAI, alla ricerca dell’esplorazione, dell’innovazione, del nuovo e di una certa nonchalance erano i fratelli Cesare e Vincenzo Ravaschietto (intervista). Due alpinisti fortissimi che tutti conoscono semplicemente come Cege e Vince. Loro erano controcorrente: da una parte il CAI, quasi militaresco, dall’altra loro, più anarchici. Grandi alpinisti, scalatori eccelsi, veri personaggi. Gente che quando vedi scalare ti sembrano “mosche tacà al véder”, “mosche attaccate al vetro”.
Io li conobbi in quegli anni, pur essendo un “bocia”, un ragazzo. Nacque un’amicizia.
Come sei diventato guida alpina?
Non so cosa mi abbia spinto a diventare guida. Quando ci ripenso non ricordo esattamente il motivo. Fatto sta che chiesi a Vince, istruttore ai corsi guida, uno di quelli che selezionava gli ingressi, se potevo superare le selezioni. Mi disse: «lascia perdere, questo giro non le passeresti sugli sci».
Ho trascorso l’anno seguente con un amico a perfezionarmi: infinite gite, le prime traversate rigorosamente in autosufficienza e poi il mito dello sci ripito andando a cacciarci giù per canalone di Tablasses, canale della Madre di Dio, canale di Lourousa e altri meno conosciuti. All’epoca lavoravo alla Coldiretti come tecnico agrario. Tutti i giovedì pomeriggio, mentre la Coldiretti era chiusa, seguivo un corso con Vince, che di fatto mi ha insegnato a sciare.
Nel ’95 il curriculum ce l’avevo, ormai ero un alpinista. Ben allenato provai le selezioni di accesso, che a quel tempo si tenevano in settembre: arrivavo in forma da un’estate di scalate, ma di sciare non se ne parlava da qualche mese, quello rimaneva il punto debole. Andò bene.

Adriano in azione © Valerio Dutto
Come hai fatto a conciliare il lavoro con il corso guide?
È stato impegnativo. Sono stato fortunato perché ho avuto dirigenti disponibili che mi lasciavano le ferie con poco preavviso.
Il corso guide è arrivato a suggellare, intorno ai trent’anni, un rivoluzionamento di vita. L’ho finito a settembre ’97, diventando aspirante guida. In quel periodo di totale stravolgimento mi sposai per separarmi pochi anni dopo.
A ottobre il mio amico Paolo, quello che mi portò a vedere l’Argentera, mi chiese se potevo tenere un corso di arrampicata per il cugino e un suo amico, Daniele Macagno. Loro facevano la terza geometri. Era il mio primo lavoro. Pensa un po’, il mio primo allievo è diventato a sua volta guida alpina e poi mio socio in Global Mountain.
Nel ’98 mi licenziai dalla Coldiretti. Avevo un bello stipendio, contratto a tempo indeterminato. La gente mi prendeva per matto: non era nella mentalità di allora.
Come ti sei fatto conoscere?
I sistemi promozionali dell’epoca erano rudimentali, c’era solo il passaparola. Tenni un corso in cui si presentò Armando Castellarin, presidente del dopolavoro ferroviario di Cuneo. Iniziammo a organizzare corsi di arrampicata in parte al chiuso in parte in falesia, avevamo 20, 30 iscritti alla volta. Questo ha fatto partire il giro.
E i viaggi?
Nel ’92 andai sull’Elbrus, scalai le montagne del Caucaso. Poi alcuni anni dopo andai in Yosemite a provare la Salathé su El Capitan e la scalata sul mitico granito californiano.
Nel ’99, a cavallo tra settembre e ottobre, terminai il corso guide diventandolo a tutti gli effetti. Organizzai un viaggio al campo base dell’Everest e all’Island Peak, un seimila dietro il Lhotse. In quel periodo Lo Scarpone, mensile del CAI, dava la possibilità alle guide di mettere degli annunci gratuitamente. Pubblicai il mio. Intanto Paolo Mantovan aprì un Internet Point in via Armando Diaz a Cuneo. Ce n’erano più in giro per il mondo, perfino a Katmandu, che a Cuneo. Mi feci preparare una locandina con uno spazio dove incollai con il Vinavil una fotocopia dell’Everest. La lasciai in qualche bar, da Limone Piemonte a Fossano. Fatto sta che tra questo e Lo Scarpone il gruppo si riempì: tredici persone, ventiquattro portatori e dieci yak per un tour dell’Everest.
Come è nata Global Mountain?
L’allora presidente regionale delle guide Alberto Re, estremamente avanguardista, ci spingeva a organizzarci in gruppo. Così poco dopo aver intrapreso la mia attività di guida a tempo pieno feci la proposta a Vince, che qualche anno prima aveva fatto parte della cooperativa guide Alpi Marittime, un abbozzo di lavoro insieme.
I primi incontri si tenevano nella cantina di Giuliano Ghibaudo (intervista). Al Donatello, mica in montagna. Giuliano è un personaggio, bravissimo scrittore. La sua cantina era organizzata come un salottino, con una vecchissima libreria e un tavolino. Era il suo rifugio. Dopo i primi incontri rimasero pochi interessati. Iniziammo Vince, Alessandro Gogna (Tato) ed io. Poco dopo arrivò Silvio Bassignano seguito da Daniele, il mio primo allievo.
Fondammo quella che chiamammo Scuola di alpinismo Alpi Marittime, con tanto di adesivo e logo. All’epoca neanche i commercialisti sapevano come fare, ma partimmo. Furono anni con poco lavoro, per fortuna ognuno di noi aveva clienti propri con cui se la cavava. Eravamo gelosi di loro: il nostro lavoro è molto individualista, probabilmente perché durante una salita si creano dei legami forti.
La scuola, sebbene con fatica, poco a poco si struttura. Si tratta proprio di un cambio di rotta netto. Vent’anni fa siamo stati una delle prime realtà a farlo.
Come mai avete cambiato nome?
A un certo punto ci siamo detti: se uno cerca delle guide, non cerca “guide delle Alpi Marittime”. La gente non conosce le Alpi Marittime e se le conosce pensa siano montagne da nulla. Il pensiero comune nel mondo è quello. Finché non le vedono. Sono montagne dal fascino straordinario, con silhouette che puoi ritrovare solo nelle grandi montagne: pendii ripidi, valli strette, profonde, pietraie sconfinate, ambienti aspri. Rispecchiano perfettamente il mio stile. Ma se uno decide di venire sulle montagne di Cuneo cosa cerca? Guide alpine Cuneo. Allora cambiammo tutto, rifondammo la società.
Nel frattempo Internet stava diventando sempre più importante. Allora creai un indirizzo email che rispecchiava un po’ la mia visione: scelsi globalmountain@tiscalinet.it. Mi sembrava troppo prendere qualcosa che avesse il mio nome dentro. Pensandoci ora è stata la scelta giusta, all’epoca rispecchiava semplicemente il mio modo di fare.
Dopo anni di proiezioni avevo fatto realizzare una videocassetta intitolata “La vetta che non c’è”. L’idea è che tu scali una cima delle Marittime, poi vedi il Monviso. Vai sul Monviso e vedi il Monte Bianco, e avanti così, all’infinito. Il nome Global Mountain rispecchia proprio questo. È nato tutto così, dalla mia casella di posta.
Quando arrivò la svolta?
Direi che arrivò nel 2001. A inizio ottobre ero al Salone della montagna di Torino a dare assistenza al muro di arrampicata del collegio delle guide e chiacchieravo con Alberto Re. Emerge la necessità in Piemonte di avviare una progettazione delle vie ferrate. Ai tempi eravamo in contatto con il comune di Entracque per via della gestione della palestra di arrampicata sulla diga. Dico ad Alberto: «non possiamo proporgli di realizzare una ferrata?». Mi rispose: «Sì, ma devi avere un ingegnere che fa il progetto».
Io l’ingegnere ce l’avevo. Era un mio cliente e amico, Livio Galfrè di Borgo san Giuseppe, che portavo a scalare con la figlia Elena, che allora aveva dieci anni. Lo chiamai: «Livio ti va di progettare una ferrata?». «Va bene, così facciamo la prima e tutti gli altri ci verranno dietro». E così è stato. Nel 2002 realizzammo la ferrata dei Funs di Entracque. La prima in Piemonte con progettazione.
Quello ci diede un po’ di soldi. Comprammo il computer, realizzammo il sito internet, aprimmo il primo ufficio guide. Poco dopo si è aggiunta la nostra segretaria, Barbara Sciandra.
Le tre ore di camminata non bastano: la storia di Adriano è avvincente e non ho finito con le domande. Decidiamo di riprendere qualche giorno dopo proprio da dove abbiamo lasciato il discorso: percorrendo la ferrata di Entracque. Questa volta ci accompagna Sara Piccolo, la compagna di Adriano. Si parte con un traverso esposto: serve per scoraggiare a pochi metri da terra chi si avventura senza sapere cosa lo aspetta. In parete scatto qualche foto, anche se le condizioni di luce non sono ideali.

Adriano e Sara sul traverso prima del ponte sospeso sulla ferrata di Entracque © Valerio Dutto
Come si costruisce una ferrata?
La progettazione di una ferrata ha un’interessante connotazione alpinistica. Occorre studiare un vero e proprio itinerario su roccia. Vedi quel traverso lì sopra? Potevamo anche salire verticali. Ma quanto è bello? L’estetica è importante. Si inizia con vari sopralluoghi, ci si cala, si individua l’itinerario in base alla bellezza della linea, alla qualità della roccia. Poi bisogna tracciarlo, stendere le corde fisse.
In seguito si definiscono i luoghi dove scaricare il materiale, che normalmente si porta con l’elicottero. Viene depositato in punti strategici in modo che lo si possa spostare in discesa. Piazzare gli scalini in ferro è una grande fatica, è raro che si infilino bene. Occorre fare buchi paralleli, ma basta poco perché non lo siano più. Anche i ferri non sono sempre precisi al millimetro. La maggior parte delle volte abbiamo dovuto infilarli a mazzate: anche senza resinarli avrebbero una tenuta pazzesca.
Per i fori acquistammo un perforatore elettrico e un generatore, che abbiamo ancora oggi, da 60 kg. Lo calavamo dall’alto. Per fortuna adesso sono migliorate enormemente le prestazioni dei trapani a batteria. Le piastre di base del ponte sospeso sai quanto pesano? 350 kg ciascuna. E 150 kg quelle sopra. Ti lascio immaginare come facemmo a vincolarle prima del posizionamento: pensa che i fori per le staffe penetrano nella roccia per tre metri.

Sul ponte sospeso. Alle spalle di Adriano si intravede la piastra superiore da 150 kg. © Valerio Dutto
Fu un periodo di lavoro davvero intenso. Iniziammo ad aprile, quando tutto era ancora innevato, e finimmo a fine giugno, lavorandoci tutti i giorni di bel tempo.

Sulle pareti verticali della ferrata © Valerio Dutto
Ci racconti qualche aneddoto?
Ci troviamo su cenge sempre piene di camosci e stambecchi. Era una zona di caccia di frodo, dove salivano cacciatori arditi. Durante il sopralluogo di quella che poi è diventata la discesa, che comunque è una ferrata, trovammo tratti attrezzati dai bracconieri. Su paretine rocciose. Pensa a scendere con un camoscio sulle spalle. Erano veri “montagnard”.

Questa è la zona dove passavano i bracconieri © Valerio Dutto
A chi è intitolata la ferrata di Entracque?
A Enrico (Ico) Quaranta, una aspirante guida che aveva iniziato a collaborare con noi. Ci stava aiutando anche nella sua realizzazione. Era un entusiasta, grande appassionato di fotografia. Durante i lavori aveva fatto bellissime foto in bianco e nero, ne ricordo una con Flavio Poggio che avvitava a cavalcioni sul ponte. I genitori di Ico gestivano il bar Elio, storica gelateria di Cuneo. Nel giorno di chiusura li trovavamo ad aspettarci ai tetti Violino, punto di partenza della ferrata, con una cassa di birre fresche.
Dovevamo inaugurare la ferrata a fine luglio 2002. La domenica prima Ico va con un amico, Alberto Borsi, a fare la nord dell’Lyskamm. Pare che quasi in vetta li abbia centrati un fulmine. Morirono entrambi. A causa dell’incidente abbiamo posticipato l’inaugurazione della ferrata che poi gli è stata intitolata. Tutte le volte che torno qua penso a Ico. È un bel ricordo.

Tutte le volte che torno qua penso a Ico. È un bel ricordo. © Valerio Dutto
Sei ancora oggi appassionato di viaggi?
Più che mai. Mi fa impazzire pensare ai posti che non riuscirò a vedere e alle cose che non potrò sperimentare. Durante una spedizione in Kirghizistan nel 2015 mi sono detto che questa cosa andava strutturata. Ho coinvolto Raffaella Giordano, di Insite Tours, e Paolo Pernigotti (Pallo), collega in Global Mountain, e abbiamo lanciato World Ski Tour, poi diventato Snowder, un programma di tour sci alpinistici in tutto il mondo. Abbiamo organizzato viaggi straordinari, dalla Patagonia al giro dei vulcani del Cile. Alla ricerca di posti non inflazionati che rispecchiano un po’ lo stile, la verve, delle montagne nelle quali sono cresciuto.
Snowder rappresenta la mia voglia di scoprire luoghi del pianeta. Proponiamo viaggi accessibili a persone positive. Il mio obiettivo è trovare l’equilibrio tra l’andare in giro e lo stare a casa. La mia casa, il mio punto di ritorno, è Sara, i nostri progetti, i nostri animali. Se non hai un punto di ritorno è inutile che vai in giro, altrimenti diventi un vagabondo. Il giusto bilanciamento per me è aver voglia di tornare a casa quando sono in giro, e aver voglia di andare in giro quando sono a casa. Quello è il mio equilibrio: la perenne ricerca, sono fatto così.
Il COVID ha impattato la vostra attività di guide?
Il COVID non ci dà la possibilità di fare programmazione, perché tutto apre o chiude improvvisamente. È una cosa che spiazza: quando siamo stati in zona gialla dovevo per forza prendere il lavoro, a costo di fare sei uscite a settimana. Ne uscivo stanco, non avevo più spazio per me, per riposare. Ma dovevo andare per rispetto di chi mi chiedeva di accompagnarlo, non potevo deluderlo.
Credo che nei momenti di crisi sia necessario investire: le crisi finiranno, non sono eterne. E se lo fossero, che abbia investito o meno non cambierà nulla.
Quali sono le caratteristiche di una buona guida alpina?
La brava guida deve prendersi la licenza di “sbagliare strada”. Se sbaglia l’itinerario, chiaramente senza che questo sia sinonimo di incompetenza o che metta a repentaglio la sicurezza del gruppo, vuol dire che si mette in gioco, che continua a esplorare territori nuovi, che ha un importante bagaglio culturale. Se mi chiedi di portati a fare un giro nelle montagne dell’Afghanistan, dove non sono mai stato, non è un problema: mi informo, vado e mi guardo intorno per esser capace di muovermi in quel territorio. Non sono il tipo di guida che passa la vita a fare gli stessi percorsi nella sua valle. È una mentalità che mi porto dietro. Se oggi ho dei clienti e domani ne ho altri è difficile che li porti nello stesso posto, anche se sarebbe molto più comodo. Non voglio che diventi una cosa meccanica.
Nel nostro lavoro l’unica cosa da fare è lavorare bene. Vuol dire che mi piace quello che sto facendo. Perché non posso accompagnare un cliente a fare una scalata e la mattina non aver voglia di alzarmi. Sara lo sa: anche se mi alzo presto mi vede contento. Non voglio passare la vita aspettando la pensione, come diceva qualcuno “fai un lavoro che ti piace e non lavorerai neanche un giorno”. Certo, in generale la vita di una guida è una vita di grandi fatiche e pericoli. La montagna è in salita.

La montagna è in salita © Valerio Dutto
In che direzione credi debba andare lo sviluppo turistico?
Abbiamo bisogno di uno sviluppo consapevole, attento, che faccia da guida al mercato, non che gli corra dietro. Lo stesso sci alpinismo è diventato molto commerciale, ed è destinato ad avere luoghi con salite tracciate, itinerari di discesa, gestioni con il supporto di motoslitte e gatti.
Serve uno sviluppo di qualità, una ricerca della tipicità, non costruire “albergoni” ma strutture che riprendano lo stile architettonico della zona, un po’ il modello valle Maira. I percorsi occitani sono interessanti, lo è meno la fruizione delle moto alla Gardetta. Perché un conto sarebbe farlo in una landa patagonica, dove ci sono territori vasti e tanto spazio: sulle Alpi siamo allo stretto.
Andare in montagna: utile o inutile?
L’utilità della montagna è nella tua testa, nelle emozioni che hai vissuto, nelle cose che fai. Un tempo i valligiani, i “montagnin”, non solo non andavano a scalare, ma se ne guardavano bene. Non per altro nelle raffigurazioni d’epoca le montagne sono sempre mostruose. L’utilità era quella legata alla sopravvivenza che finiva con il pascolo o il campo coltivato.
Ora viviamo nel mondo del benessere. I popoli che praticano l’alpinismo sono quelli che stanno bene: se stai cercando di sopravvivere non vai a consumare forze per salire su un mucchio di sassi. Se vivi bene devi sfogare le energie in esubero, gestire lo stress di una società sempre più indaffarata. Non vuol dire che non sia importante: per me è importantissimo, è la mia vita.

Di ritorno verso Entracque © Valerio Dutto
Siamo tornati alle auto. Le “quattro chiacchiere” sono state ben più lunghe di quanto mi aspettassi, ma in questo mondo frettoloso e superficiale credo ci sia bisogno di un ritorno a tempi più rilassati, a riflessioni più profonde. Questa è la filosofia della nuova rubrica Cuneotrekking stories: interviste a persone che vivono lontano dai riflettori che ci stimolino a riflettere. Grazie Adriano per questa lunga chiacchierata!

Adriano immerso nel suo ambiente: la montagna © Valerio Dutto
Ugo Supporter
01/05/2021 alle 15:12
Ciao, è stato un grande piacere leggere questo articolo. Grazie a chi lo ha redatto e pubblicato.
Tanta ammirazione e stima per Adriano.
LUCIANO Supporter
10/05/2021 alle 14:02
VALERIO, BELLISSIMA INTERVISTA, MI HA COMMOSSO SPECIALMENTE LA PARTE RIFERITA A ” ICO QUARANTA” CHE CONOSCEVO MOLTO BENE LUI E I SUOI GENITORE (ELIO & TERE) . CHIEDO. NELLA APP. SULLO SMARTPHONE PERO’ NON RIESCO A VEDERLA. SECONDO TE E’ UN PROBLEMA SUL MIO SMARTPHONE OPPURE E’ GIUSTO CHE SI POSSA VEDERE SOLOSUL PC? GRAZIE. COMPLIMENTI X TUTTO
Linda Supporter
18/05/2021 alle 21:47
Intervista davvero interessante! Non conosco Adriano ma mi sento in sintonia col suo pensiero e il suo approccio. Grazie per questi momenti di approfondimento. Linda