Incontro Daniele Molineris sulle colline dietro casa. Daniele è un fotografo professionista specializzato nella fotografia sportiva. Conosco e apprezzo il suo lavoro, delle sue foto mi colpiscono autenticità, raffinatezza e naturalezza (vedi galleria fotografia al fondo). Ho seguito con interesse il percorso che gli ha permesso di emergere a livello internazionale lavorando con i più importanti brand del mondo outdoor. Mentre lo intervisto camminiamo verso il Prato del soglio e il Bec du Corn, dove Daniele ha ambientato tanti servizi fotografici. Mi spiega che quando conosci bene il posto è tutto più facile: sai già dove posizionarti, come arriva la luce.

Daniele si affaccia dal Bec du Corn sull’intera pianura cuneese © Valerio Dutto
Chi sono i tuoi principali clienti?
Tra i produttori di abbigliamento e attrezzatura sportiva Norrøna, Red Bull, Salewa, La Sportiva, Gore, Asics, Level, The North Face, CMP, MET Helmets. Alcuni sono clienti diretti, altri arrivano da collaborazioni con agenzie del settore. Inoltre collaboro con riviste specializzate come Skialper e Alvento.

Daniele in azione © Valerio Dutto
Qual è stato il tuo percorso?
Ho avuto un percorso anomalo. Durante le superiori studiavo poco e disegnavo molto, facevo graffiti, aerografie. Mi diplomai per il rotto della cuffia. Finita la scuola partii per il militare, tornato non avevo più intenzione di studiare. Feci diversi lavori e nel 2002 mi candidai per un posto di grafico alla Tipolito Europa di Cuneo. Ancora oggi non so perché abbiano scelto me.
Eri già appassionato di fotografia?
All’epoca non mi interessava. Però ricordo che nel 2004, mentre impaginavo la rivista di Peveragno, l’allora sindaco mi chiese di cercare sul web una foto della piazza per la copertina. Avrei capito se mi avesse chiesto la piazza centrale di chissà dove: possibile che non ci fosse qualcuno che poteva andare a scattarla?
Non era la prima volta che dovevo usare foto tremende. Andai da Foto Renata e acquistai una digitale Olympus con sensore quattro terzi. Quando scattai le prime foto non mi sembrava possibile: la macchina era bella eppure le foto venivano orribili. Mi incaponii, per la prima volta iniziai davvero a studiare qualcosa: libri, video, corsi. Passai quattro anni senza pensare ad altro. Non mi sono innamorato della fotografia, è lei che mi è entrata in testa.
Ero presissimo dalla tecnica, cercavo la perfezione sia nello scatto che nella post-produzione. Composizione ineccepibile, luci e ombre tutte perfettamente leggibili. Quel tipo di fotografia che oggi mi ha stufato. Per anni pensai esclusivamente alla tecnica, partecipavo ai forum, litigavo, cercavo di imparare dagli altri.

Daniele a Rosbella, la frazione a quota più elevata di Boves © Valerio Dutto
Come sei diventato fotografo professionista?
Impaginavo la rivista Unico. Il titolare della tipografia mi chiese di scattare le foto da pubblicare. È stato un periodo molto stimolante, ho assistito a interviste a personaggi veramente interessanti: Fredo Valla, regista e sceneggiatore, Dario Osella, fondatore delle Fattorie Osella, Cristiana Delprete, che a Cuneo ha fatto tantissimo per il teatro. Persone che avevano una storia da raccontare. Andavo con il giornalista, ascoltavo e scattavo il ritratto.

Ritratto di Daniele scattato durante l’intervista © Valerio Dutto
Come sei passato all’outdoor?
Grazie alla rivista Unico le mie immagini iniziarono a girare. Un grafico le notò e mi chiese se potevo fare le foto per un suo cliente: Asics. Fu il primo salto verso l’outdoor. Ero appassionato di snowboard, ma non ero un grande sportivo. Con gli amici feci un corso di alpinismo con la guida alpina Adriano Ferrero (intervista) e iniziai ad andare in MTB.
Nel frattempo acquisii i primi clienti e nel 2012 mi licenziai dalla tipografia. A 32 anni ero abbastanza maturo, mi dissi «o adesso o mai più». Per fortuna Roby [Roberta Castelli, n.d.r.], la mia compagna, e la mia famiglia e mi hanno sempre sostenuto.

Dopo esserci affacciati dal Bec du Corn riprendiamo la camminata © Valerio Dutto
Come sono arrivati i primi clienti?
Un ragazzo di Guastalla, Gabriele Bonuomo (intervista), aprì un negozio di sport a Cuneo fuori dagli schemi che vendeva il brand norvegese Norrøna. Per promuoversi fece una pubblicità su Unico, io andai a fargli le foto. Chiacchierammo, iniziammo a conoscerci. Quell’inverno Gabriele organizzò un “Norrøna day” ad Argentera. Mi invitò come fotografo e chiamò due atleti professionisti. La notte prima non dormii tanto ero agitato.
Lì conobbi la guida alpina Giuliano Bordoni, che percepì la mia tensione e mi diede una mano. Gli mostrai le foto della giornata e mi disse che un servizio così non l’aveva mai visto. Pensare che erano le mie prime foto sulla neve.
Come te lo spieghi?
Se sbagli un servizio per Red Bull non ti dicono «non preoccuparti, farai bene il prossimo». Una delle mie grandi fortune è stata avere un altro lavoro, non avere la necessità di fare subito qualcosa. Dopo aver passato notti insonni a imparare, quando mi hanno chiamato sapevo già fotografare.
Nel frattempo continuai a fare servizi per le aziende della zona, matrimoni, ciò che mi dava da vivere. L’anno dopo Giuliano Bordoni mi invitò al King Of Dolomites, concorso di fotografia dove vince il team che scatta la foto di freeride più bella. Faccio sempre fatica a gestire quello che è fuori dalla mia zona di comfort, ma non riesco a dire di no.
Dopo lo shooting Giuliano mandò le mie foto a un amico fotografo. Si trattava di Damiano Levati, il mio idolo: era quello che fotografava i migliori, tutte le copertine erano sue. Penso che a Damiano le mie foto non siano piaciute, però si informò su di me.
Qualche mese dopo, mentre mi trovavo con Roberta ad Argentera a sciare, vedemmo due vestiti The North Face dalla testa ai piedi. Uno sembrava proprio Damiano Levati. Gli andai incontro, mi presentai. Facemmo qualche discesa insieme parlando di fotografia. La sera stessa mi mandò un messaggio: «mi faresti il ritratto di famiglia?». Preparai lo studio con largo anticipo, non ti dico che ansia.
L’anno dopo mi chiamò per fotografare la Red Bull K3, una gara durissima di 3.000 metri di dislivello su appena dieci chilometri. Servono tanti fotografi sparpagliati. Al primo lavoro insieme mi spedì sull’elicottero: terapia d’impatto.
Dopo quell’occasione mi introdusse ai clienti della sua agenzia, Storyteller-Labs, oggi un partner importante. Insomma: le tre persone fondamentali nel mio percorso, tutte incontrate casualmente, sono state Gabriele Bonuomo, Giuliano Bordoni e Damiano Levati.
Qual è il tuo stile fotografico?
Ciascuno ha la propria voce. Prendi Jovanotti: ha la sua, che non è neanche particolarmente bella, ma le sue canzoni le canta bene solo lui. Io ho la mia voce e posso usare solo quella, è inutile che mi sforzi a usarne un’altra. Se chiami Jovanotti e gli fai cantare il Nessun dorma verrà una schifezza.
Le cose che fotografo devo raccontarle come le vedo, non pettinate, non pulite. Ho passato anni a cercare la perfezione. Fino a dire: potrebbe essere di chiunque. Si tende a togliere l’elemento umanizzato, come una struttura fatiscente. Quando lo scorso inverno ho fatto un servizio a Limone Piemonte per Skialper ho fatto entrare i mezzi che scavavano per ripristinare i danni della tempesta Alex. Esistono, contestualizzano quel particolare momento storico.
Ho cercato di slegarmi dal cliché della bella foto. Conservo una foto di Rocca la Meja che è perfetta, con un tramonto da sogno. Quando la riguardo però non so che anno era, perché è sempre uguale. Se ci fosse stata una persona avrebbe acquisito una dimensione in più, la potrei inserire in periodo storico. Per me è importante.

Nei pressi della cima di Francia © Valerio Dutto
Cosa pensi di Instagram?
Instagram è pieno di foto simili. È un buon piano bar: va bene per chi è molto intonato, per chi suona bene il piano, ma canta le canzoni di altri. Un cantautore, come Jovanotti, magari non ha la voce migliore, ma ha qualcosa da dire. Non mi paragono a lui, ma sono su quella filosofia.
Instagram ha fatto sì che il mondo outdoor iniziasse ad annoiarmi un po’. Tutti i giorni vedo un’infinità di foto perfette. È il problema dei social, sei talmente assuefatto da tutta questa perfezione che ti annoi. Ma non è il contenitore ad essere sbagliato, è il contenuto che guardi.
Che consigli daresti a chi vuole crescere nel proprio percorso fotografico?
Devi guardare tante foto, devi essere curioso. Prendi la foto di Rocca la Meja perfetta, o una sfocata di una bambina durante la guerra nel Vietnam. Una è bella, l’altra è sbagliata, ma quale delle due racconta di più?
Per crescere è fondamentale padroneggiare la tecnica: tempi, diaframmi, ISO. La fotografia è un linguaggio e la tecnica è quello che ti permette di comunicare. Se tutti sappiamo parlare italiano non è detto che tutti sappiamo scrivere un romanzo.
Una volta che hai acquisito la tecnica, che sei in grado di fare le foto che fanno gli altri, contaminati con tutto quello che puoi. In ogni foto che fai ci sono i libri che hai letto, le cose che hai visto, le esperienze che hai vissuto. Una serie di cose che saranno sempre soltanto tue. Pur facendo fotografia sportiva ero abbonato a Vanity Fair e a riviste di moda che non c’entravano nulla. Ma avevo bisogno di contaminarmi.
Guarda quello che fanno gli altri, sporcati le mani. Esci con delle idee in testa e prova a portarle a casa.
Che autori consigli?
I coniugi Ashley e Jered Gruber, i fotografi ufficiali del Tour de France. Vanno oltre alla foto da news, quella con il teleobiettivo. Il racconto è fatto dalla carovana, dall’ultimo che arranca e fatica, dal pubblico che gioisce.
In ordine casuale apprezzo molto Ale di Lullo, Adam Pretty, Giulio Piscitelli, Vladimir Rys, Boris Beyer, Andrè Josselin, Tony Thorimbert, Sara Lando.
Ammiro anche fotografi che non sono di outdoor, come Alan Schaller, fotografo Leica che fa solo bianchi e neri bellissimi, Marco Onofri, bravissimo nel ritratto.
Quali sono i tuoi consigli per scattare una buona foto?
Tenere a mente per chi stiamo fotografando. A meno che tu non sia un professionista devi scattare per te, come quando andavi in vacanza con la usa e getta. Se hai solo la foto di vetta manca qualcosa. Con chi eri? Com’eri vestito? Faceva caldo o freddo? Pioveva? Cosa avevi mangiato? È importante contestualizzarla, consapevole che se la fotografia non è il tuo lavoro stai scattando per te.
L’attrezzatura non è fondamentale. Un conto è se sei un professionista o se hai uno scopo particolare, altrimenti per quanto siano piccole le mirrorless devi sempre portarti uno zainetto sulle spalle.

Un professionista non può fare a meno di portare uno zaino sulle spalle © Valerio Dutto
A chi mi chiede consigli suggerisco un buono smartphone. È chiaro che mancherà la profondità di campo, la gestione di tempi e diaframmi. Ma quello è un passo in più che ha senso solo se sei davvero appassionato.

Anche un buono smartphone può fare ottime foto © Valerio Dutto
Che attrezzatura utilizzi quando sei in montagna?
Il passaggio a mirrorless è stato facile, mi ha permesso di togliere chili dallo zaino e il mercato va in quella direzione. Oggi uso due Canon R5. Mi soddisfano per nitidezza, sfocato, messa a fuoco. Un salto in avanti non indifferente.

Una delle due Canon R5 © Valerio Dutto
Le mie macchine sono vissute, le ho da meno di un anno ma guarda come sono conciate.

Fotocamere vissute © Valerio Dutto
Mi piacciono tantissimo le ottiche fisse, ma mi obbligano a portare troppe cose sulle spalle. Ora uso tre lenti: il Canon 28-70 f/2, che essendo f/2 costante lo uso come se fossero tanti fissi così da non dovermi portare il 35, il 50, l’85. Poi il Canon 70-200 f/2,8, qualitativamente stupendo, è una lama.

Questo è l’obiettivo Canon 70-200 f/2,8 © Valerio Dutto
Infine il Canon 15-35 f/2,8, un grandangolare che mi permette di avere il soggetto ben ambientato e che uso tantissimo dall’elicottero.
Come zaino uso un modello NYA-EVO con lo scomparto interno che si stacca.

Lo zaino di Daniele © Valerio Dutto
È molto modulare: per i servizi veri e propri lo riempio di attrezzatura fotografica, per un reportage in montagna metto un solo corpo macchina, due lenti, abbigliamento, cibo e acqua.

Tutto deve essere a portata di mano © Valerio Dutto
Porto sempre con me una manciata di schede SD da 128 GB, batterie di scorta e uno GNARBOX 2.0 (vedi su Amazon) per scaricare le foto mentre sono in giro senza dover usare il computer.
All’aperto non uso il treppiede, il mio soggetto è sempre in movimento. Quando serve aggancio al volo una tracolla Peak Design (vedi su Amazon). È molto comoda perché posso metterla e toglierla: se sto facendo un reportage preferisco avere le due macchine appese così da non dover poggiare a terra la seconda.
Non uso filtri, sarebbero un’altra cosa a cui pensare: più aggiungo variabili più mi complico la vita. La mia è una fotografia veloce.
Automatico o manuale?
Scatto completamente in manuale, tempi, diaframma, ISO. È come quando prendi il caffè senza zucchero: all’inizio ti fa schifo, ma poi non torni più indietro.
Lavoro con diaframmi molto aperti, agisco sul tempo di scatto di conseguenza e fisso gli ISO al minimo per aumentarli solo se necessario. Anche il bilanciamento del bianco lo tengo sempre fisso a 5.500 K.
Tengo quasi sempre attivo l’autofocus continuo, così da avere il soggetto sempre a fuoco. Uso pochissimo il fuoco manuale, a meno che il soggetto prima non sia nascosto.
Uso praticamente sempre la raffica, perché tra occhi chiusi, falcate, ci sono talmente tanti momenti sbagliati che per avere quello giusto dovrei far ripetere l’azione troppe volte.
Digitale o analogico?
Nasco digitale. Ho provato l’analogico, ma non sono un nostalgico. In ottica di progetto personale potrebbe avere senso, lavorativamente no. Uso tutta la tecnologia che posso: Ansel Adams utilizzava il banco ottico non perché facesse hipster, ma perché era la cosa migliore che c’era a quei tempi. Sono convinto che potesse adesso userebbe una digitale.
Detto questo con le mie immagini cerco di portare un sapore analogico, perché sono nato e cresciuto con le diapositive.
Cosa ne pensi della post-produzione?
Se è una campagna pubblicitaria ci devo passare il tempo richiesto. Se è un reportage meno manipolo le foto meglio è, devono rimanere reali. Inizialmente cercavo la perfezione aprendo tutte le ombre, recuperando le luci, scattando in HDR così da avere tutto quanto leggibile. Ma era estremamente noioso, passavo ore a recuperare immagini sbagliate. Se una foto è giusta la editi in pochi minuti.
Quello che è importante è trovare una propria voce, farsi un preset da cui partire, conoscere la teoria dei colori e nell’arco di una sessione fotografica dare lo stesso sapore a tutte le foto. Se faccio foto in bianco e nero, calde, fredde, non sto raccontando una storia. Devo mantenere la stessa voce dall’inizio alla fine.
Dove lavori?
Tantissimo nelle Dolomiti, da Merano in poi. Poi in tutto l’arco alpino tra Austria, Svizzera e Francia. Raccontare un’azienda o un atleta nel suo habitat naturale è meglio. Quando mi hanno chiesto di fotografare Marco Olmo (intervista) nelle Dolomiti gli ho detto che volevo fotografarlo con la Bisalta alle spalle.
Naturalmente passo molto tempo in studio a Boves per la pre-produzione, la post-produzione e gli still life.

Daniele è un bovesano, quindi va fotografato con il Monviso -o la Bisalta- alle spalle © Valerio Dutto

In questo caso mi veniva bene il Monviso © Valerio Dutto
Cosa fai nel tempo libero?
Lo passo in bici: MTB, strada e gravel. Mi piace molto lo sci alpinismo, ma la bici per me è libertà. Arrivo dalla MTB perché ho le montagne dietro casa. Per anni non ho pensato ad altro. Poi, conoscendo persone che andavano in bici da corsa con lo spirito di godersela, l’ho approcciata e ho scoperto che è altrettanto bella. Quando arrivi sul Fauniera con le tue gambe è una sensazione indescrivibile.
Recentemente mi sono innamorato della gravel. Con Roberta abbiamo fatto Cuneo-Monesi sulla strada e poi ritorno dall’Alta via del sale. Su asfalto avremmo voluto la bici da corsa, sull’Alta via del sale avremmo voluto la MTB. Però la gravel ci ha permesso di fare il giro completo. Oggi dovessi scegliere una bici sola sceglierei la gravel, con cui lo scorso anno ho fatto Cuneo-Roma e quest’anno Cuneo-Venezia.

Basta guardare le gambe di Daniele per capire che è un vero mountain biker… © Valerio Dutto

…anche se questa ferita se l’è fatta alla Red Bull X-Alps © Valerio Dutto
Ti piace ancora la fotografia?
Non potrei farne a meno, anche se sono consapevole che con le mie foto non sto aiutando il mondo. Ma è l’unico linguaggio che mi rappresenta. Cerco di evolvere, trovare nuovi stimoli. Ecco perché mi piace fotografare la Red Bull X-Alps, una gara che richiede agli atleti di percorrere le Alpi a piedi e con il parapendio. È un reportage di una cosa che sta succedendo davvero.
Daniele è appena tornato dalla X-Alps che ha seguito come membro del team dell’atleta Aaron Durogati. Mi ha raccontato che mentre passava a Kitzbühel, a Leogang e sul passo del Tonale ha visto gigantografie di sue foto. Niente male per un ragazzo partito da Boves che non amava studiare.
Ecco una selezione di foto scattate da Daniele Molineris. Buona visione:

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris

© Daniele Molineris