Ho avuto il piacere di conoscere Erik Rolando un anno fa quando con La Stampa abbiamo percorso l’Alta via del sale in MTB. Appassionato guardiaparco, fortissimo mountain biker, ha una storia che mi ha profondamente colpito. Siamo andati a fare una camminata a Sant’Anna di Valdieri, che d’estate diventa la sua casa visto che la moglie Michela gestisce la Casa Alpina. Durante la chiacchierata mi ha raccontato di quando gli fu diagnosticata una leucemia, della lotta tra la vita e la morte, di quello che chiama il suo Tour de France. Una lunga intervista che spero stimoli riflessioni profonde.
Parlami di te
Sono nato a Ceva, mia madre era delle Langhe e mio padre di Ormea. Negli anni settanta giravo con la bicicletta alla scoperta delle colline intorno. Mi spostavo tra Langhe cebane e la valle Tanaro, che sento come la mia valle. La mia famiglia mi ha sempre portato pochissimo in montagna: sebbene mio padre da bambino abbia fatto il pastore, con il boom economico degli anni sessanta la sua vita, come quella di molti altri, si è spostata in pianura.
Quando facevamo i picnic estivi in riva al fiume e vedevo una riva volevo risalirla per capire dove conduceva. Arrivato su non mi bastava, volevo salire sempre di più, ero attratto dalla verticalità. A dieci anni mi portarono a fare la Via del sale con una bellissima Renault 4 color crema. Passammo ai piedi del Marguareis e ne rimasi affascinato, vidi per la prima volta le doline, che mi sembrarono montagne al contrario.

Erik mentre mi racconta della sua infanzia © Valerio Dutto
Com’è nata la passione per bici?
Mi piaceva tantissimo pedalare. All’epoca esistevano solo le BMX e le bici da corsa. Io mi feci regalare entrambe, ma avevo le idee un po’ confuse: con la bici da corsa facevo i salti e andavo sui percorsi sterrati. Ho fatto molte imprudenze: all’epoca non si usavano protezioni, né tanto meno il casco.

Ancora oggi Erik ama saltare con la bici © Valerio Dutto
Mi resi conto che mi piaceva la salita, fare fatica. Andavo con Angelo Gallo, capostazione coetaneo dei miei genitori, giudice di gara della Federazione ciclistica italiana, ma soprattutto grande ciclista che aveva la pazienza di portarmi con sé. Un giorno mi portò nel negozio Asteggiano di Mondovì e mi fece tesserare. Corsi cinque anni nelle categorie giovanili. Mi divertii veramente e fu una scuola importante.
L’agonismo insegna molto, bisogna lavorare tanto con il fisico e con la testa: serve il giusto equilibrio. Per fortuna ho avuto direttori sportivi che non mi hanno mai spinto all’estremo. Tuttavia la genetica non mi ha regalato ciò che serve per fare il ciclista di professione, cioè la completezza di andare al massimo dappertutto: in discesa me la cavavo, però le gare erano in salita. All’epoca delle tecniche di allenamento non si sapeva molto, non era una scienza codificata come oggi. Ho vissuto sulla mia pelle questo periodo un po’ convulso.
Quando correvo ho vissuto tante delusioni, ma mi hanno insegnato a metabolizzare e accettare la sconfitta. Quando non riesci a ottenere il risultato che ti sei prefissato e inizi a cercare delle scuse è il momento di fermarsi e chiedersi: “mi sto creando un alibi?” La bici mi ha insegnato la fatica e la consapevolezza nella vita in generale.
E la montagna?
Nell’85 la scuola ci portò a fare una settimana verde al Pian delle Gorre. Lì scoprii la valle Pesio. I guardiaparco ci portarono al Pis del Pesio: ricordo queste montagne verdissime, gli abeti, l’acqua che scorreva, cascate bellissime. Al rifugio Garelli conobbi Guido Colombo, che è ancora l’attuale gestore, che mi fece vedere il profilo del Marguareis.
Questa esperienza mi spinse a iscrivermi alla scuola forestale di Ormea. Volevo fare la guardia forestale, ma nel ’93 partecipai a un concorso per diventare guardiaparco dell’allora parco naturale dell’Alta valle Pesio e Tanaro. C’erano due posti e io arrivai terzo. Due anni e mezzo dopo, un po’ perché l’ente crebbe, un po’ perché pochi mesi prima era mancato il guardiaparco Danilo Re, mi assunsero. Iniziai il primo giugno del ‘96. Per me era un sogno, mi sentivo veramente parte della montagna.

Erik nel suo ambiente. Ci troviamo sulle rocce del Gorgàs a picco su Sant’Anna di Valdieri © Valerio Dutto
Mi occupavo delle stazioni botaniche, del censimento degli ungulati, del controllo raccolta erbe officinali, della pulizia dei sentieri, del controllo dei pascoli, dei controlli nivometrici.

Ritratto di Erik Rolando © Valerio Dutto
Bici, passione per la montagna, scuola forestale, guardiaparco. E la mountain bike?
Nell’86 arrivò il rampichino della Cinelli e mio padre mi comprò una Alpinestars giallo fluo, bellissima. Da lì non mi sono più staccato dalla MTB: era la fusione di due mondi, la montagna vissuta in bici.
Negli anni ’90 decisi di approfondire la tecnica. Iniziai a fare corsi, il primo con l’Associazione MTB Italia. Appena la Federazione ciclistica italiana coniò la figura del maestro di MTB feci il corso federale e lo divenni. Imparai che la bicicletta non si guidava solo a sensazione: con le giuste nozioni tecniche si poteva migliorare e fare in sicurezza certi sentieri. Mi si aprì un mondo.

Con le giuste nozioni si possono superare in sicurezza tratti tecnici © Valerio Dutto
Qualche anno dopo scrissi alla federazione per chiedere come mai non si facesse pratica proprio in montagna. Vedendo il mio entusiasmo mi fecero prendere parte come aiutante agli esami per maestri. Nel frattempo con l’amico Francesco Giraudo fondai la scuola Bike Gelas e organizzammo a Entracque un corso per maestri di MTB. L’istruttore era Enrico Martello, valdostano dalla grande esperienza, che mi chiese se ero disposto a fare il corso per diventare a mia volta istruttore. Lo divenni poco dopo. Nel frattempo ero già docente per il Formont. Cercavo di alzare sempre più il livello degli accompagnatori cicloturistici della regione Piemonte.

Erik in sella alla sua Cube © Valerio Dutto
Anche in servizio ogni tanto mi muovo in bicicletta. Feci anche begli inseguimenti, come quella volta che al rifugio Don Barbera vidi due trialisti che scendevano verso Carnino: li inseguii, li superai e li fermai, facendogli il verbale. Recentemente il parco ha comprato sei bici elettriche con cui facciamo pattuglia.
Il Marguareis è sempre nel tuo cuore?
Nel 2000, mentre lavoravo nelle stazioni botaniche Danilo Re e Burnat-Bicknell del Marguareis, Guido Colombo, il gestore del Garelli, mi fece conoscere una ragazza che lavorava per lui, Michela Formento, che poi è diventata mia moglie. Il Marguareis per me è stato fondamentale: prima mi ha stregato con la Renault 4, poi con la settimana verde, infine mi ha fatto sposare Michela.
Poi la batosta
Nel 2003 e nel 2006 nacquero i nostri primi due figli, Lucio e Martino. Intanto facevo gare in giro per l’Italia con il mio amico Andrea Errani, medico di Ceva con una passione sfrenata per la MTB. Nel 2007, verso fine stagione, iniziai a sentire strane palline sotto al collo e sull’inguine. Andrea mi fece fare due esami, che diventarono tre, quattro. Intanto i linfonodi non sgonfiavano.
A settembre vinsi le naturolimpiadi dei parchi. Mi dissi: «sto benissimo». Andrea continuò con gli accertamenti e mi mandò dal dottore Daniele Mattei, un luminare del reparto di ematologia di Cuneo. Intanto Michela era incinta di Maria Celeste.
Mi accolse un omone di due metri, il dottore Nicola Mordini, una delle persone che mi salvò la vita: «Allora, la leucemia linfatica cronica è una malattia che…» «Leucemia?» «Ah non te l’hanno detto?». Mi spiegò tutto, come fossi un bambino, con la stessa pazienza. La leucemia linfatica cronica è una malattia che generalmente colpisce gli anziani, io avevo 35 anni. Mi disse di continuare con i controlli, che per il momento non mi avrebbero fatto nulla «perché sarebbe peggio farti le cure di quello che la malattia adesso ti crea».
Iniziai a percepire che tutto quello che era la realtà scontata, ordinaria, era invece per privilegiati. Dovevo scalare una montagna. Facevo i controlli ogni tre mesi, i valori erano abbastanza stabili, anche se i linfonodi erano sempre gonfi. Ingenuamente chiesi ai dottori: «Non è che potete farmi il trapianto?». Non sapevo ancora che il percorso che conduce al trapianto è una cosa estrema.
Passò un anno, arrivò la fine del 2008. I linfonodi erano cresciuti. Mattei mi disse «Mi sa che è arrivato il momento di iniziare le cure. Tranquillo, sono chemioterapici monoclonali, non ti faranno perdere i capelli, non patirai la nausea.»
Il primo gennaio 2009 smisi di lavorare. Tante volte ci si lamenta dell’Italia, ma per cure salvavita, soprattutto se come me hai il privilegio di essere un lavoratore pubblico, hai delle agevolazioni pazzesche che ti consentono di curarti.
Feci il primo ciclo di cura ascoltando incessantemente Hurricane di Bob Dylan. Mi dissero che i valori andavano bene ma i linfonodi non si sgonfiavano e che in rarissimi casi la leucemia linfatica cronica si trasforma nella sindrome di Richter, un linfoma a grandi cellule molto aggressivo. Mi asportarono un linfonodo all’inguine sinistro. Verdetto: sindrome di Richter. Iniziammo le cure, quelle vere. Speravo di non patire troppo di stomaco perché amo mangiare. Iniziai a vomitare a gennaio 2009 e finii a Natale 2010.
Ero arrabbiato: perché proprio a me? Al diavolo la leucemia, piuttosto muoio sugli sci sotto a una valanga.
Dopo quattro cicli feci l’autotrapianto, ventidue giorni in camera sterile: mi presero le cellule, me le ripulirono e le reiniettarono. In quei giorni partiva il Giro d’Italia, con Lance Armstrong che dopo aver sconfitto il cancro era riuscito a vincere sette Tour de France. Per noi malati oncologici era un’icona, un simbolo della lotta a questa malattia, ci dava la speranza.
Nonostante la chemioterapia e le nausee continuai ad andare in bici. Solo da corsa, perché i dottori mi dissero «se riesci a non spaccarti tutte le ossa magari è meglio.» Mi chiesero di indossare la mascherina, soprattutto nei supermercati, nei luoghi affollati. Oggi purtroppo è la normalità, all’epoca no: una volta entrai in banca e chiamarono i carabinieri.
A un certo punto fu chiaro che il percorso sarebbe dovuto sfociare nel trapianto. Fissarono la data per la fine luglio 2009. Entrai in ematologia, la dottoressa mi sentì starnutire, mi fece fare una TAC ai polmoni. Andando in bici mi ero beccato la polmonite, avevo le difese immunitarie sotto i tacchi. Il primario, il professor Andrea Gallamini mi fece capire che rischiavo di compromettere tutto. Dopo un po’ tornarono Mordini, Mattei e il dottore Davide Rapezzi, ormai diventati amici: «Sei una testa dura, ma non fossi così non ce l’avresti fatta ad arrivare qua. Curati questa polmonite, poi facciamo il trapianto.» Mi rincuorarono.
Curammo la polmonite e fissarono il trapianto il 3 agosto. Insieme a un ciclo di ciclofosfamide mi fecero per una settimana sette minuti al mattino e sette minuti alla sera di irradiazione corporea totale. Sentivo il corpo che si disfava. Non mangiavo più: rimasi un mese e mezzo con le flebo.
Prima del trapianto mi chiamarono. Mi dissero che ce la potevamo fare, ma sarebbe stata la gara più lunga e dura della mia vita. Lì ho capito che non stavamo facendo una salita del Giro d’Italia, ma un Tour de France. È inimmaginabile. Da un punto di vista alpinistico le cure, per chi ha paura del vuoto, sono una salita sull’Argentera o sul Monviso, il trapianto è una nord dell’Eiger.

Erik mi racconta del suo Tour de France © Valerio Dutto
Ogni giorno poteva essere l’ultimo. Però non riuscivo a viverlo come l’ultimo, perché sarebbe stato un giorno di merda. Dalla camera sterile del sesto piano guardavo giù, vedevo la gente passare e mi dicevo “pensa quelli là, sono arrabbiati perché sono in ritardo per fare la spesa, o si sono presi una multa per divieto di sosta”. Rimette tutto in prospettiva.
Il sesto piano conta 144 scalini. Ho sempre cercato di farli a piedi fin che non ce l’ho più fatta, ho dovuto prendere l’ascensore.
Il 3 agosto mi fecero il trapianto con le cellule staminali di un cordone ombelicale di una bimba di quattro anni di Barcellona. Non ho mai saputo chi è, ma mi piacerebbe ringraziare questa sorellina spagnola. A fare il trapianto con me c’era Piero Laratore, cordone ombelicale anche per lui. Sguardi, angosce e sorrisi dietro la mascherina, nei corridoi dell’ospedale e dai vetri delle camere sterili. Un legame speciale, un fratello di sangue, per sempre.
Dopo venti giorni questa piccola quantità di midollo di cellule non era ancora partita, ero ancora a zero globuli bianchi. Per me la paura è la sensazione vissuta in quei giorni: pensare di vedere i miei figli per l’ultima volta dalla finestra del sesto piano. Il ventunesimo giorno si spalanca la porta, entra Rapezzi, «sono partiti! 200 globuli bianchi!». Dopo quarantaquattro giorni di camera sterile uscii che ero la brutta copia di me stesso. A causa delle cure, del cortisone, ero ingrassato e avevo completamente perso massa muscolare.
Tornai a casa, ripresi a vivere. Nel caso del Tour de France quando arrivi agli Champs-Élysées e hai in mano la coppa assapori la vittoria. Con un trapianto nessuno ti dice “sei guarito”, sei sempre in corsa. C’è una fine, ma non è netta.
Tornai sulla bici la prima volta il 25 aprile del 2010: un giro di pochi chilometri in pianura, ma mi sfiancò a tal punto che per un mese non la toccai più. Sarebbe stata dura tornare quello di prima. Anche Mordini me lo disse: «non lo tornerai più, l’età avanza.» Eppure, proprio insieme a Mordini, nel 2019 completammo la Fausto Coppi. Arrivammo al traguardo con lo striscione dell’AIL “insieme si vince”. Sono orgoglioso di lui: ha fatto la granfondo con pochissimo allenamento, con una bici in acciaio da 12 kg, soffrendo le pene dell’inferno, ma è arrivato.
Quella è stata la fine del Tour de France?
Non l’ho mai vista sotto questa luce, ma probabilmente è stato proprio quello l’arrivo.
Due anni prima avevo già fatto la Fausto Coppi con un amico, arrivammo 103esimo e 104esimo. Quando l’avevo fatta a 28 anni ero arrivato 81esimo, quindi ero tornato come prima, ma con una visione completamente diversa. Il mio intento era duplice: da una parte dimostrare a me stesso fin dove potevo arrivare, dall’altra far vedere a chi sta lottando contro qualsiasi male che si può vincere. Che non vuol dire fare la Fausto Coppi: vuol dire tornare a fare la spesa con i figli, la passeggiata sul lungomare.
La malattia è come una montagna, la devi scalare in qualche modo, ma sempre con rispetto. La patologia che mi ha colpito non è solo da maledire: mi ha insegnato molto. Ora vivo meglio, ho imparato che la vita è bella e va vissuta in questo momento. La vita è adesso, non sono solo progetti, cose materiali da accumulare.

La vita è adesso, non sono solo progetti, cose materiali da accumulare © Valerio Dutto
Hai avuto fortuna?
Ho avuto una fortuna sfacciata. I momenti difficili del passato li ho rimossi: se, come oggi, ne parlo, mi tornano in mente le emozioni che ho vissuto e mi rendo conto che è stato veramente difficile. Ora che mi sto avvicinando ai cinquant’anni, quando penso che sto invecchiando aggiungo: “e meno male”.

Ora che mi sto avvicinando ai cinquant’anni, quando penso che sto invecchiando aggiungo: “e meno male” © Valerio Dutto
Come pensi di avercela fatta?
Credo per un insieme di fattori: fiducia, fisico, testa, famiglia.
Ho fiducia nella scienza. Se vado dal medico mi fido di lui, perché fa quel lavoro tutti i giorni, migliaia di volte. Nel mio caso inoltre è servito tantissimo il fisico. Ho iniziato le cure che ero in perfetta forma visto che mi allenavo tutti i giorni. Questo ha sicuramente aiutato. Non mi reputo un cuor di leone, ma i miei genitori mi hanno insegnato che il semplice quotidiano bisogna guadagnarselo. All’ospedale ho imparato ad accettare quello che mi arrivava, un passo alla volta. Se guardi la cima ti scoraggi, devi scomporre la grande salita in piccoli obiettivi. Infine la famiglia, il contesto in cui vivi, fa tantissimo.
Hai un aneddoto da raccontarmi?
A inizio anni duemila Michela si iscrisse all’Associazione donatori midollo osseo. Tra me e me pensai “certo che essere donatore di midollo non è uno scherzo”. Nel 2005 la chiamarono, era compatibile con un paziente, la informarono di tutti i rischi che la cosa avrebbe comportato. Ricordo di averle detto «chi te lo fa fare?». Lei, testarda, fece la donazione. Due anni dopo mi trovai dall’altra parte, nei panni di quello che grazie al midollo di qualcuno è tornato a vivere.
Oggi sono orgogliosamente nel consiglio dell’AIL (Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma) di Cuneo, che ha fatto tantissimo in questi anni per i pazienti e le loro famiglie.
Cosa fai nel tempo libero?
Vado in bici, in montagna, a Imperia dove abbiamo un uliveto che è il nostro rifugio. Mi piace la Liguria di ponente perché dal mare nascono le montagne. Oggi è il mio giorno di riposo, ma questa mattina ho camminato e adesso cammino con te. Non mi ha mai stufato, è la mia vita.

La tecnica del nose press © Valerio Dutto

La borraccia della 2020 MTB World Cup © Valerio Dutto
Riesci ancora a stupirti?
Sono salito chissà quante volte al tetto Rivoire, ma quando vedo davanti l’Oriol e il Lausetto non riesco a non fare una foto: è talmente bello.

Dietro quelle nuvole dovrebbero spuntare Lausetto e Oriol © Valerio Dutto
Credo sia fondamentale riuscire sempre a stupirsi delle cose che abbiamo intorno, anche se non sono tutte le volte cose nuove.
Ho riportato il racconto di Erik senza filtri. Lo ringrazio di cuore perché non dev’essere stato facile tornare a scavare in quei momenti così difficili. Una storia dura, che ci ricorda che in qualunque momento la vita può prendere una piega inaspettata, ma che lottando con anima e corpo è possibile uscirne, per quanto cambiati, e vincere il “proprio” Tour de France.

Rientriamo alla Casaregina di Sant’Anna di Valdieri © Valerio Dutto
Massimo Giugale
02/08/2021 alle 22:12
Grande Erik,
Grazie a Cuneotrekking ho appreso della tua lotta. Ti ricordo con affetto e simpatia ai bei tempi dei Nosalini. Ricordo le serate in cui raccontavi delle uscite in bici. Già allora andavi forte! Complimenti per la determinazione, umanità e sincerità che ho percepito. Spero di rivederti.
Auguri per tutto e da buon cebano ti sono vicino.
Massimo Giugale
Roberto
03/08/2021 alle 00:24
Ciao Erik
Ti ho conosciuto al corso per maestri ad Asti nel 2016 (?).
Da subito ho avuto l’impressione di avere di fronte un uomo libero, felice, pulito!!!
Grazie per la bellissima condivisione della tua esperienza, c’è da farne tesoro in ogni riga!!!
Un saluto!
Roberto
Valerio
03/08/2021 alle 21:42
Ho un ricordo molto bello del tour del Marguereis con Erik.Ciao grande uomo.
Paolo Montanari
04/08/2021 alle 09:29
Grazie Valerio per questo racconto, l’ho letto con commozione e profonda stima per Erik. Grande spirito!
A presto
Paolo
Sergio Introzzi
04/08/2021 alle 12:35
Che dire … sei un GRANDE e soprattutto una bella persona, auguro tutto il bene del mondo a Te e a tutte le persone a Te care!
Claudia
20/08/2021 alle 17:21
Ogni volta che un fratello di sangue racconta la sua storia mi ritrovo a pensare, ancora oggi dopo molti anni, che ciò che abbiamo imparato da pazienti ci ha reso persone migliori e si è rivelata un’ottima opportunità. Onore al reparto di Ematologia di Cuneo, che opera con massima competenza restituendo lo spirito di una grande famiglia. Grazie ad Erik per questa condivisione e grazie a Valerio per il suo orecchio sensibile.