Marco Olmo non ha bisogno di presentazioni. Anche se a lui non piace questo termine lo definisco un “outsider” visto che a quasi sessant’anni, da pensionato, senza preparatore atletico e un team di supporto, riuscì a vincere per ben due volte l’ultramaratona più importante e impegnativa del mondo, l’Ultra-Trail du Mont-Blanc (da tutti conosciuta semplicemente come l’UTMB). Stiamo parlando di una gara di 160 chilometri per 8.900 metri di dislivello che ha completato in appena 21 ore piazzandosi davanti ad atleti professionisti con la metà dei suoi anni.
Lascio scegliere a Marco dove incontrarci e mi propone il Prato del soglio, una panoramica radura esattamente a metà strada tra le nostre case. Nella nostra chiacchierata non mi soffermo troppo su quanto ha già raccontato nei suoi libri, che consiglio a chi vuole conoscerlo meglio, ma cerco di soddisfare le mie curiosità su un personaggio così affascinante.
Chi è Marco Olmo?
Nacqui nel ’48 nella miseria che la guerra aveva lasciato su queste montagne. A Robilante si viveva dell’attività del castagno, che per noi era semplicemente l’“arbu”, l’albero. Si andava a scuola e poi al pascolo: a quei tempi per noi ragazzini di montagna la vita era grama. In paese erano più fortunati: andavano all’oratorio, giocavano a pallone. Noi scendevamo in campo con gli zoccoli. Negli anni sono passato dalla campagna a fare il boscaiolo, poi il camionista, infine a lavorare in cava alla Buzzi Unicem. A ventisette anni mi venne la bella idea di andare a fare una corsa alle Piagge, una sfida tra amici. Iniziai a fare gare in zona e nel frattempo sposai Renata. Da inizio anni ottanta, con il lavoro più stabile alla Buzzi Unicem, iniziai ad allenarmi seriamente. D’inverno facevo sci di fondo e sci alpinismo, tanto che nell’85 vinsi la Tre rifugi con Dario Viale. Feci parecchie corse in montagna, ma la gente mi conosce dal ‘96 quando passai in televisione durante la prima Marathon de Sables. L’apice è arrivato nel 2006 e 2007, quando vinsi due volte di fila l’UTMB.

L’apice è arrivato nel 2006 e 2007, quando vinsi due volte di fila l’UTMB. © Valerio Dutto
Sei sempre stato un outsider. Per conto tuo, zitto zitto, senza preparatori atletici e un team di supporto. Eppure sei riuscito a ottenere risultati pazzeschi.
Outsider non direi, perché quando arrivai all’UTMB avevo già vinto cinque o sei volte la Gran Raid du Cro-Magnon, quattro Desert Cup e avevo ottenuto tre podi alla Marathon de Sables. Tutte gare organizzate dai francesi che mi conoscevano benissimo: “il arrives Marcò” dicevano. La vittoria all’UTMB non è stata una sorpresa.
Sei competitivo?
Sì, sono molto competitivo, in tutto, da sempre. Quando ero giovane i miei genitori mi dicevano che non ero capace a far niente: “dësgrupte”, datti da fare. Dovevo sempre dimostrare di essere all’altezza. Non ho fratelli o sorelle, altrimenti la competizione sarebbe stata ancora maggiore.
Come si riesce non dico a vincere, ma ad arrivare al fondo di gare così impegnative?
Con tanto sudore. Su questi sentieri ho faticato moltissimo. Ogni vittoria sono minimo cento litri di sudore, forse duecento. Non per vincere la medaglia, ma per arrivare alla partenza.

Ogni vittoria sono minimo cento litri di sudore, forse duecento. Non per vincere la medaglia, ma per arrivare alla partenza. © Valerio Dutto
Per arrivare all’UTMB devi partire da molto lontano. Non è che ti svegli e dopo sei mesi la vinci. Devi anche avere delle doti che, non per vantarmi, non tutti hanno.
Secondo te che cosa serve? Un misto tra gambe, cuore, polmoni, testa?
Io non sono un purosangue, sono un mulo. Però ho una determinazione e un mix di tutte queste cose che portano anche un mediocre a vincere. Se mi avessero messo a correre una 10.000 metri piani sarei stato una nullità, avrei potuto completarla al massimo in 35 minuti. In pista, quelle poche volte che ci ho messo piede, correvo per mezz’ora a passo 3:30, distruggendomi. Però sulle lunghe distanze me la cavavo. I francesi dicevano che non avevo un passo da conquistatore, ma da sfiancatore di avversari.
Dicono che non ti fermi mai.
Nelle prime UTMB gli atleti si fermavano un po’ di più nei rifornimenti. Adesso si fermano pochissimo. Anche io facevo sosta solo il tempo necessario per prendere il cibo per arrivare al rifornimento successivo.

Anche io facevo sosta solo il tempo necessario per prendere il cibo per arrivare al rifornimento successivo. © Valerio Dutto
Immagino ci voglia un autocontrollo pazzesco.
Come si allenano le gambe si allena la testa. La prima volta ti sembra impossibile, poi ci fai l’abitudine. La mente ti aiuta, ma le gambe devono portarla. La paragono a un pilota di Formula 1: conta il 20%, il restante 80% è la macchina. Adesso posso pensare quello che voglio, ma a settantaquattro anni non vado più da nessuna parte.
Niki Lauda non era un pilota spettacolare, ma arrivava in fondo. Quando corri sei il pilota, la macchina, il meccanico. Devi dosare bene le energie e avere molta fortuna: in gare così lunghe può succedere qualunque cosa.
Quando all’UTMB del 2006 passai in testa all’inizio della salita di Bovine mi dissi: “questa è l’occasione della vita, devi gestirla bene”. È lì che conta la testa, la freddezza di non emozionarti, non tirare troppo, non sbagliare. L’UTMB non è la gara della domenica, è un’olimpiade. In una gara così quando superi un avversario devi demolirlo, deprimerlo. Come nella boxe: quando l’avversario è in difficoltà devi dargli il colpo di grazia.

In una gara così quando superi un avversario devi demolirlo, deprimerlo. Come nella box: quando l’avversario è in difficoltà devi dargli il colpo di grazia. © Valerio Dutto
Al giorno d’oggi ci sono ragazzi che iniziano l’attività sportiva da giovanissimi. Tu hai sempre fatto un altro lavoro.
Perché sceglievo io di allenarmi, se me l’avessero imposto non l’avrei fatto. Sarebbe stato un lavoro, mi sarei stufato.
Oggi sarebbe ancora possibile vincere l’UTMB a 59 anni?
Penso che sarebbe difficile: è migliorato tutto, i ragazzi fin da giovanissimi fanno allenamenti mirati sulla base dei ritmi del cuore. Qualcuno dice «tu avevi l’esperienza». Sì, ma avevo anche un sacco di anni. Dietro casa c’è una salita che quando avevo quarant’anni facevo in 45 minuti, dieci anni dopo avevo perso 5 minuti, il 10%. Vedrai dopo i settanta le gambe come diventano.
Quando a vent’anni facevo il camionista spostavo sacchi di cemento da cinquanta chili. In un’ora e mezza trasportavo centottanta quintali. Oggi non riuscirei a muoverne uno. L’esperienza conta, ma le olimpiadi non le vincono gli ottantenni. Sono i giovani che hanno la potenza a cui l’allenatore passa l’esperienza.
Ti sarebbe piaciuto nascere dopo e giocartela con Kilian Jornet?
Mi sarebbe piaciuto che Kilian fosse nato nel ’48, avesse fatto il boscaiolo, e poi ci fossimo trovati a 59 anni sull’UTMB.
Kilian è un grande atleta, ma ha fatto dei record che personalmente non apprezzo. Io feci il mio partendo da casa fino alla cima dell’Argentera. Non erano ancora i tempi dei social e non dico il tempo, è una cosa mia. Si pubblicizzano quando c’è un pettorale, dei giudici, una partenza, un arrivo e dei controlli. Ricordo solo che quando ero sui tornanti prima delle Terme di Valdieri mi sorpassò un ragazzo con la moto da trial, che parcheggiò sette chilometri dopo al Pian della casa del re. Lo superai un po’ prima del rifugio Remondino.
Quando corri sei estremamente minimalista, non porti un grammo in più del necessario. Anche nella tua corsa si vede l’economia del gesto, il risparmio.
Quando hai poco da spendere cerchi di spendere poco. È come dire: ho 1.000€ e voglio andare in vacanza per una settimana. Se li usi bene arrivi all’ultima sera che puoi farti ancora una bella cena, se li usi male vai a dormire sotto a un ponte.
Quando corro devo essere io l’anello debole, tutto il resto deve funzionare bene. Un tempo mi criticavano per l’abbigliamento. Non avevo uno sponsor tecnico, mi vestivo come stavo bene. Ora sono sponsorizzato da CMP e Dryarn.
Preferisci le salite o le discese?
Le salite. Se quando avevo quarant’anni ci fossero stati i vertical avrei avuto belle possibilità.
Solo corsa o ti piace anche andare in montagna a passo lento?
A me non piace molto andare in montagna. Preferisco farmi un’ora, un’ora e mezza, di corsa intensa al mattino. Le vette non mi intrigano. Prendi il monte Matto: cammini tutta la giornata per un attimo in cima. O l’Argentera, dove per superare la cengia devi fare la coda come al supermercato.

A me non piace molto andare in montagna. Preferisco farmi un’ora, un’ora e mezza, di corsa intensa al mattino. © Valerio Dutto
A me piace camminare dove puoi alzare gli occhi senza inciampare. Trovo bellissima la cresta dei forti di Tenda. Hai una visibilità eccezionale da un versante e dall’altro, il Marguareis davanti. Oppure l’alta valle Gesso intorno al Valasco: puoi concatenare i laghi di Valrossa, Valscura, Claus, Portette, Fremamorta.
Su quali sentieri ti alleni?
In tutta questa zona dove ci troviamo ora, il versante destro orografico della valle Vermenagna. Bric Berciassa, pilone della Battaglia, pilone del Moro, prato del Soglio.

Anche se ci è già passato migliaia di volte Marco non resiste alla tentazione di scattare una foto. © Valerio Dutto
Abbiamo anche tracciato un anello, “sui sentieri di Marco Olmo” (SMO), su cui per alcuni anni si è corsa una gara di una quindicina di chilometri. A Robilante ho corso dappertutto. Pensa che un tempo su di qua non veniva nessuno. Quando ho iniziato ad allenarmi per passare in certi posti dovevo schivare i rami come un pugile.
Qual è il tuo percorso preferito?
La zona del pilone della Battaglia.
E per i lunghi?
Partivo da Robilante, toccavo il pilone della Battaglia, scendevo a Boves, risalivo al colle Bercia, Pradeboni, pian delle Gorre, passo del Duca, poi tornavo giù dalla valle Vermenagna. Viaggiavo leggero: l’acqua la trovavo lungo il percorso, portavo solo due fette di pane per la prima parte, poi delle barrette.
Sei vegetariano, te le fai in casa come va di moda oggi?
No, utilizzo le classiche barrette Isostad o Enervit. Le ultime cinque o sei Marathon de Sables sono andato sui gel: pesano poco, sono facili da digerire. Logico: nelle gare più lunghe, dove corri per venti ore, devi mangiare qualcosa.
Non sono fissato, non uso le proteine. Credo che gli integratori salini non servano, perché sono talmente pesanti da digerire che lo stomaco deve prendere acqua dai muscoli. Fanno l’effetto contrario. Niente di meglio di acqua e formaggio, che reintegra i sali. Ho mangiato molto Parmigiano Reggiano: alla Marathon de Sables in una settimana ne facevo fuori un chilo.
All’UTMB bevevo molta acqua e mischiavo il tè bollente con la Coca Cola ghiacciata: faceva una schiuma pazzesca, ma era una bontà. Normalmente non berrei una Coca Cola, ma in gara ti tira su, perché ha molta caffeina, zuccheri, acidi che aiutano lo stomaco a digerire. Non ho mai assaggiato una Red Bull.
Chi erano i tuoi avversari più temibili?
All’UTMB Vincent Delebarre, Christophe Jaquerod, Dawa Sherpa. Gente che aveva vinto nelle edizioni precedenti. Poi il francese Nicolas Mermoud, che è arrivato terzo nel 2007. Non è mai arrivato primo, ma a ben pensarci è proprio lui che ha vinto visto che ha fondato il brand di scarpe Hoka One One. Ha guadagnato sicuramente più di me.
C’è qualcosa che cambieresti se potessi?
Le gare sono gare. Ho sempre cercato di salvare la macchina per la gara dopo, senza distruggermi. Quando all’UTMB del 2008 mi ritirai dopo 148 chilometri mi criticarono. Eppure avevo paura di farmi del male. Quando il dolore supera la soddisfazione c’è qualcosa che non va.
Mentre corri riesci a goderti il momento?
Non tanto, ma l’immagine più bella dell’UTMB è quando dal rifugio Bertone avevo il Monte Bianco di fronte e il sole è sorto illuminandolo.
Segui ancora il trail running?
Non più, non conosco i nomi di chi ha vinto negli ultimi anni.
Utilizzi un GPS per tracciare gli allenamenti?
Il mio GPS è questo.

Il mio GPS è questo. © Valerio Dutto
Come fai a tener traccia dei tempi?
Utilizzo un’app sullo smartphone che per sicurezza porto al braccio quando mi alleno. Alla fine del mese conto il totale dei chilometri.
Quanti chilometri fai in un mese?
Questo mese [gennaio 2022, ndr], toccherò i 400 chilometri e 12.000 metri di dislivello. Ancora oggi, tutti i giorni, mi tolgo da casa per lasciare un po’ di privacy a mia moglie. Un tempo il giorno di Natale cercava di farmi desistere, poi ha smesso di provarci. Ogni tanto le dico «l’anno prossimo smetto», ma lei ribatte «e cosa fai a casa?». Non abbiamo figli o una particolare vita sociale.
Tua moglie Renata dev’essere una santa donna.
Questo lo dite tutti, come se uno che corre fosse un delinquente. Per carità, vivere con un atleta non è facile: è sempre stanco, irritato, nervoso prima della gara. C’è anche molto da lavare. Però quando mi fanno questa osservazione ribatto che se avessi avuto la passione per il calcio sarei andato la domenica a vedere la partita, il lunedì a discuterne al bar con gli amici, il mercoledì a seguire la Champions League. Sarebbe stato anche peggio.
Renata mi ha sostenuto in molte gare, spostandosi in auto da un rifornimento all’altro, anche di notte, da sola. Siamo sempre partiti per le vacanze con la borsa con la roba per correre. Per fortuna non è una a cui piace prendere il sole in spiaggia. Abbiamo fatto il giro della Corsica e non abbiamo messo i piedi in acqua.
La corsa è stata un’occasione per scoprire il mondo?
Mi ritengo fortunato. Ho corso in Giordania, in Oman, Mali, Marocco, Bolivia, Brasile, California, Mozambico, dove a 69 anni ho vinto l’ultima gara.
Prima della pensione come facevi combaciare gare e ferie?
Per alimentare il frantoio lavoravamo a ciclo continuo, per cui ci organizzavamo in modo da essere almeno in due. Ho avuto la fortuna di avere bravi colleghi. In fondo stai più tempo con loro che con la moglie.
Hai avuto infortuni nella tua carriera?
Grandi cose no, mi ritengo fortunato, solo il ginocchio a 69 anni. Ma non ho mai fatto cose veloci, di potenza. Non sono mai stato un gran discesista, vincevo solo sulla distanza. Dopo le 15 ore c’è la gara nella gara, diventa un’altra cosa. Una lotta contro le tue gambe, il dolore, la fatica.
Quanto ci vuole per riprendersi da una gara?
Dopo l’UTMB per tre, quattro giorni ero proprio a pezzi. Partivo a correre, ma mi pentivo subito. Se non tornavo a casa era solo per non farmi vedere distrutto dai vicini. Dopo una gara così hai i quadricipiti a pezzi. Sono muscoli che lavorano accorciandosi, frenando lavorano al contrario, allungandosi. Quindi l’unico modo per allenarli è fare discese. Se fai solo salite e non corri mai in discesa dopo mille metri sei distrutto. Mi ero tracciato un anello tra i castagneti sotto al pilone della Battaglia, con pezzi veramente ripidi. Facevo tre o quattro giri come allenamento, salivo e scendevo lungo lo stesso percorso.
Diverso il caso della Marathon de Sables, perché essendoci poche discese non acciacca i muscoli come l’UTMB. Il giorno dopo andavo a correre 6 km, anche se trascinando i piedi.
Ho fatto in totale 9.000 km di gare nel deserto, compresse nelle 180 pagine del libro Correre nel grande vuoto. Sono ancora qua a raccontarlo, vuol dire che il deserto non è così letale.
Come si fa a fare gare così lunghe senza dormire?
Avendo sempre fatto gare sotto alle ventiquattro ore non mi sono mai fermato a dormire. Gare ancora più lunghe, come il Tor des Géants, non mi sarebbero piaciute, trovo che non abbiano alcun senso. Di sonno ne ho perso abbastanza a fare il camionista.
Qual è la gara più massacrante alla quale hai partecipato?
La Badwater 135, un’ultramaratona che si svolge su asfalto nella Death Valley in California con temperature di 55 gradi. Un forno, è come avere un soffiatore ad aria calda sulla testa.
Con l’asfalto ho brutti rapporti. Feci una 24 ore in Francia, a metà dovetti andare al bagno, ma non riuscii a mettermi giù tanto i muscoli erano stanchi. All’UTMB non ho mai avuto questi problemi.
Il trail running è uno sport di nicchia. La gente ti riconosce?
Sì, forse perché ho vinto da vecchio: lo avessi fatto da giovane sarebbe stato normale. Il trail una volta era considerato sport da poveri, ora sta diventando sempre più di moda, per fare l’UTMB hai addosso mille euro. Non è il podismo con canottiera e completino della società, dove ti compri le scarpette e basta.

Non è il podismo con canottiera e completino della società, dove ti compri le scarpette e basta. © Valerio Dutto
Comunque è una soddisfazione quando qualcuno mi ferma per un selfie. L’altro giorno mi ha scritto un ragazzo dalla Sicilia. Mi ha mandato due foto, una di tre anni fa quando pesava 190 chili e una di oggi in cui ne pesa 90. Dice che grazie al mio esempio si è messo a correre, andare in mountain bike. Quando ricevo messaggi così la notte quasi non dormo pensando che grazie ai miei libri gli è cambiata la vita.

Quando ricevo messaggi così la notte quasi non dormo pensando che grazie ai miei libri gli è cambiata la vita. © Valerio Dutto
Come si fanno 8900 m di dislivello in una gara?
La salita è faticosa, ma è la discesa che ti massacra. Roba che poi non ci credi d’averlo fatto. Nel mio secondo libro cito una frase di Oscar Wilde: “Ci hanno promesso che i sogni possono diventare realtà, ma hanno dimenticato di dirci che anche gli incubi sono sogni.” In effetti dopo una gara ho gli incubi: di non averla finita, di non aver vinto. Come dopo un esame scolastico o altri eventi importanti della vita.

In effetti dopo una gara ho gli incubi: di non averla finita, di non aver vinto. © Valerio Dutto
Fatiche mostruose, grandi sacrifici, sveglie tutte le mattine con qualunque tempo per correre mentre vorresti stare a letto, giorni KO dopo le gare, incubi per mesi. Ma chi te lo fa fare?
Quando corriamo rilasciamo endorfina e adrenalina che ci fanno stare bene. È la ricerca di questa sensazione. Non appena finisco una corsa penso già a quella dell’indomani mattina. Certe volte arriva il rigetto, ma poi la fatica si dimentica. Quando sono tornato dalla prima Marathon de Sables ho detto al mio vicino: «mai più!». Altro che mai più: ci sono tornato ventidue volte.
Ringrazio Marco Olmo per il tempo che ci ha dedicato. Ringrazio anche i nostri supporter: le Cuneotrekking stories esistono solo grazie a voi!

Quando sono tornato dalla prima Marathon de Sables ho detto al mio vicino: «mai più!». Altro che mai più: ci sono tornato ventidue volte. © Valerio Dutto
Albino
02/02/2022 alle 14:32
Ho conosciuto Marco Olmo anni fa….grande runner!
Francesco
04/02/2022 alle 22:06
Bella intervista
Grande Marco: amo il suo modo di essere. Un bell’esempio per tutti.
Valter Birro
04/02/2022 alle 22:13
Ho letto tutto I libri di Olmo e li conservo come reliquie Se Ognitanto mi prende lo sconforto o la pigrizia mi basta guardar le copertine x allacciarmi le scarpette e scendere a farmi i miei mitici 8/10 km x sentirmi come diceva lui alla fine di una dura gara in paradiso
Giuseppe Felce
04/02/2022 alle 22:24
Bravi, chapeau !!!