Andrea Parodi non ha bisogno di presentazioni: alpinista esperto che non teme gli ambienti impervi, artefice di numerose prime ascensioni, bravo e prolifico scrittore di numerose guide sulle Alpi sud occidentali. Ci mettiamo alcuni mesi a organizzare il nostro incontro, per poi trovarci il giorno del suo sessantaseiesimo compleanno ai piedi del Marguareis (che, da persona attenta ai toponimi, prununcia con marcato accento genovese Margua-réis). Arrivati al pian delle Gorre si prepara fin troppo con calma per poi avviarsi senza fretta. Carattere un po’ ruvido, anarchico per sua stessa definizione, mi parla in modo schietto e sincero.
Innanzitutto auguri di buon compleanno!
Oggi compio sessantasei anni, fa un certo effetto. Prima dei sessanta ero scatenato, proprio in questa zona ho fatto scalate con bivacchi imprevisti su sesti gradi friabili. A cinquantanove anni andavo in montagna meglio di quando ero giovane, poi ho cominciato a sentire i primi acciacchi. Ma scalo ancora: lo scorso settembre, con Gabriele Canu, ho aperto l’ennesima via nel Marguareis, con difficoltà fino al settimo grado.
Chi è Andrea Parodi?
Mi definisco “alpinista scrittore”. Ad alpinista ci tengo molto: sono quasi cinquant’anni che scalo montagne. Da ragazzo ero gracile, timoroso, insicuro. Con la contraddizione di essere attratto dalla montagna, dall’avventura. Ho avuto la fortuna di nascere in Liguria, un posto pazzesco: credevo fosse normale avere il mare davanti a casa e le montagne dietro.

Ritratto di Andrea Parodi © Valerio Dutto
Imparai a camminare in Valtournenche, in Valle d’Aosta. Vi andavamo in vacanza con la famiglia di mio zio, appassionato a modo suo di montagna, cacciatore di marmotte e alpinista più teorico che pratico. Lui e mio padre non si sopportavano, mentre mia madre e mia zia erano legatissime. Per questo facevamo le ferie insieme, ma alloggiando in case o alberghi separati.
Da bambino ti entrano dentro delle sensazioni che rimangono tutta la vita. Il profumo degli aghi di larice, la luce che filtra tra gli alberi, il verde dei prati. Passeggiavamo a Cretaz, andavamo a vedere il Cervino, salivamo con la funivia a plan Maison, guardavamo i ghiacciai. È partito tutto da lì.
Quando avevo sei anni mio zio si innamorò di Bagni di Vinadio e scoprimmo le Alpi Marittime. Noi alloggiavamo all’albergo Nasi, loro all’albergo Ischiator. Guardavo con il suo binocolo i camosci sui monti, arrampicavo sui massi, risalivo il torrente Corborant, esploravo le frazioni abbandonate, salivo verso San Bernolfo. Timoroso, ma avventuroso.
Crescendo, intorno ai 14 anni, iniziai ad andare con un amico in campeggio a Frabosa sottana. Ci arrampicavamo con una corda comprata al mercato su guglie alte una quindicina di metri.
A 16 anni cercai di iscrivermi al corso di alpinismo del CAI, ma non mi presero. Ero magrissimo: alto un metro e ottanta pesavo appena 47 chili. In più ho un marcato soffio al cuore: a quei tempi non si sapeva molto, i dottori per precauzione mi dissero di non fare nulla.

Ero magrissimo: alto un metro e ottanta pesavo appena 47 chili. © Valerio Dutto
Mi iscrissi comunque al CAI, feci qualche gita al margine tra escursionismo e alpinismo e a 19 anni ci riprovai. Mi presero e iniziai a fare alpinismo.
Alpinista, ma anche geologo.
All’università studiai scienze geologiche. L’alpinismo si fa sulle rocce, volevo sapere come sono fatte, approfondire la geomorfologia.
Perché le Alpi sud occidentali?
Io sono un bastian contrario, non mi piace fare quello che fanno tutti. È la mia natura. Mi affascinano i piccoli ghiacciai, nevai, laghetti nascosti. In più le grandi montagne mi fanno un po’ paura, forse perché i dottori dicevano che il mio cuore era mal messo.
Ero attratto da questi posti vicini e poco inflazionati. Prima Bagni di Vinadio, poi Frabosa sottana: Alpi Marittime e Liguri. Amo le sensazioni fisiche: mi piace l’odore del muschio, il contatto la roccia, l’aria fresca, il sole sulla pelle.
Il fragore del torrente quasi copre le nostre parole. Ci fermiamo spesso per aggiungere e togliere strati di abbigliamento.
A quell’epoca le Alpi Liguri non erano proprio considerate, il classico detto “ma con gran pena le reca giù” insegnato a scuola partiva dalle Marittime.
Le conoscevano solo i geologi e gli alpinisti. È una mia battaglia, ho anche scritto “Non chiamatele Marittime”.
Sui quali libri ti sei formato?
Lessi il libro “Alpi Liguri e Marittime” del Touring Club Italiano e CAI. Poi scoprii la guida “Alpi Marittime” di Michelangelo Bruno dedicata a Clapier, Maledia e Gelas. Mia madre mi regalò per Natale “Il massiccio del Monte Bianco, le 100 più belle ascensioni” di Gastom Rèbuffat.
Naturalmente divorai “Le mie montagne” di Walter Bonatti e cominciai a sognare scalate, pareti e ghiacciai, anche se le sue avventure mi sembravano fuori misura per un ragazzino gracile come me. Due libri che hanno inciso tantissimo sulla mia formazione sono “I conquistatori dell’inutile” di Terray Lionel e “Le Alpi” di Selezione Reader’s Digest: più dei testi le foto, che ho sfogliato innumerevoli volte sognando atmosfere incantate e rocambolesche ascensioni.
Fin da bambino ho amato i libri. Leggo di tutto: dagli autori classici, come Proust e Dostoevskij, alla fantascienza. Leggo tanti romanzi, di tutte le epoche, che mi hanno aiutato a sviluppare il modo di scrivere.
Un libro in particolare di montagna?
“Palestre di arrampicamento genovesi” di Euro Montagna, datato 1963. Scoprii che dietro casa, sulle pendici dei monti del Beigua, c’erano posti dove si poteva arrampicare.
Nel 2019 un grande incendio lambì la mia casa e mi costrinse a evacuare. Scappando presi solo tre cose: i contanti, la tessera del CAI e il libro “Palestre di arrampicamento genovesi”. Nient’altro, questo per farti capire quanto fosse importante per me.
Nel frattempo siamo arrivati ai piedi del Marguareis. Andrea mi mostra alcune vie che ha aperto sulle vertiginose cime nei dintorni: Scarason, Castello delle Aquile, Tino Prato, Marguareis. Pareti che incutono timore, dalla dubbia qualità della roccia.

Le vertiginose cime nei dintorni del Marguareis © Valerio Dutto
Hai la fama di cercare i posti difficili.
Una persona mi disse: «come padre di famiglia non mi prenderei quei rischi». Se fossi matto non sarei arrivato a sessantasei anni. Magari lui si fida degli spit degli altri, io mi fido dei miei chiodi.
Dicono: «Parodi è un pazzo che si va a cacciare nei posti brutti». Non è così: a me piace andare dove c’è ancora da esplorare. Se vedo una linea che mi affascina, la roccia friabile non è un piacere, ma un difetto che posso sopportare. Come la via sull’Oronaye che ho aperto con Enrico Sasso e Sabrina Zunino nel 2017. Una parete talmente bella, evidente, ma mai scalata per la cattiva fama della roccia.
Sei tu che vedi le vie nuove?
Sì. Io o Fulvio.
Fulvio Scotto?
Savonese, accademico del CAI, un personaggio. Leggendo le sue imprese te l’immagini come un omone grande e grosso, invece sembra un timido contabile. Ma ha il fisico e soprattutto la testa.
Molti compagni di cordata durano una stagione. Con Fulvio andiamo da quarant’anni. Salvo quando aprii con Gabriele Canu e Pietro Godani una via sulla parete nord del Castello delle Aquile. In origine dovevo farla con Fulvio, ma era sempre impegnato. Io avevo la smania e non lo aspettai. Non mi parlò per due anni.
Siete tornati a fare cose insieme?
La prima dopo la scaramuccia fu “Il battesimo di Mosè”. Non il profeta, ma il nostro amico Mosè Carrara, arrampicatore sportivo, bravo scrittore. Lesse un mio articolo e mi contattò. Dopo una nuova via sulle Sagneres, tranquilla, su roccia buona, decidemmo di fare qualcosa sul Marguareis, il suo sogno. Fulvio aveva individuato un torrione a destra dello Scarason che non si trova nelle guide. Armando Biancardi raccontava di averlo scalato con Armando Aste e con la retorica buonista dei tempi lo chiamarono Torrione dell’amicizia.
Andrea mi racconta nei dettagli di un bivacco improvvisato su scomode cenge, con pochi viveri, acqua centellinata. A cinquantanove anni. Mi dice che si trattò del primo bivacco in parete di Mosè e della sua prima via sul Marguareis: non potevano che chiamarla “Il battesimo di Mosè”. Poi mi indica l’impressionante parete dello Scarason.

L’impressionante parete dello Scarason © Valerio Dutto
La prima volta che sentii parlare dello Scarason fu sul libro di Sandro Comino: “l’inviolata parete dello Scarason”. Iniziai a sognare, avevo 15 anni. Purtroppo nella seconda edizione della guida la parola inviolata non c’era più: nel frattempo Alessandro Gogna aveva aperto una via, una delle sue più grandi imprese. In questa zona la roccia è brutta e strapiombante. Dove si rompe si rompe, dove non si rompe è difficile da chiodare.
Oltre alla via di Gogna, che passa tutta sulla destra, sul libro di Comino era indicato un tentativo centrale, in cui due alpinisti, Tardito e Folli, che già dai nomi dovevano essere due pazzi scatenati, avevano fatto un tentativo salendo cento metri prima di arrendersi.
Con Fulvio Scotto e Sergio Calvi, un savonese poi diventato guida alpina, meno talentuoso dal punto di vista dell’arrampicata, ma testa dura, calmo, forte fisicamente, facemmo un primo tentativo. Dopo due giorni e mezzo eravamo appena a metà parete, senz’acqua, con enormi difficoltà sopra. Tornammo giù: avevamo sbagliato approccio, avremmo dovuto usare il sacco da recupero come sulle pareti dello Yosemite.
Ci preparammo e all’inizio di settembre dell’87 tornammo convinti. Rimanemmo appesi quattro giorni, una scalata epica, un’impresa bellissima. La cosa più commovente è che Guido Colombo, il gestore del rifugio Garelli, ci seguì metro per metro con un cannocchiale e il quarto giorno ci venne incontro con acqua e viveri ben sapendo che li avevamo finiti. Fu una sorpresa, all’epoca non esistevano i cellulari.
È stata la tua impresa più significativa?
Dal punto di vista globale sì: quattro giorni in parete lottando al massimo delle nostre capacità. Anche se tecnicamente ho fatto cose più impegnative, tipo la “Fessura delle Streghe” sull’anticima nord di Pian Ballaur.
Arrivati nei pressi di un grande masso erratico nel vallone del Marguareis Andrea non resiste e si arrampica su. Nonostante i sessantasei anni si vede che adora ancora scalare.

Andrea non resiste e si arrampica su un grande masso erratico © Valerio Dutto
Hai scalato con personaggi del calibro di Alessandro Gogna e Giancarlo Grassi.
Da ragazzi avevamo scoperto Finale Ligure. Facevo l’università a Genova, ma passavo più tempo sulle rocce finalesi. Le signore della locanda di Orco Feglino mi avevano adottato: mi preparavano il budino, la marmellata fatta in casa. Eppure, essendo casa nostra ci sembrava valesse meno di posti più blasonati.
A un certo punto ci rendemmo conto che arrivavano personaggi di rilievo: Alessandro Gogna, Giancarlo Grassi, Manolo, Renato Casarotto, Marco Bernardi, Ivan Guerini con i capelli lunghi, la bandana e l’aria da santone. Talenti assoluti, quelli di cui leggevamo sulla “Rivista della montagna”. Mi trovavo al tavolo con i miei miti, alla pari, scalavamo insieme. Come se una ragazzina vedesse il cantante dei suoi sogni al tavolo accanto del bar, anzi: come se ci cantasse insieme.
Ho scalato più volte a Finale con Gogna. Ha 11 anni più di me, ma è ancora in forma. Avevo letto il suo libro “Un alpinismo di ricerca”, uno dei miei riferimenti insieme a “Una frontiera da immaginare” di Andrea Gobetti. I personaggi del cambiamento, rinnovamento.

Ho scalato più volte a Finale con Gogna © Valerio Dutto
Erano davvero così forti?
Guarda, quella è una cosa strana. Ieri ho conosciuto un signore di cinquant’anni che scala molto meglio di me. Però io ho fatto cose che lui non ha fatto. E così Gogna, Grassi. Facevano gradi che allora erano notevolissimi. Adesso li fa chi ha iniziato da poco, ma solo se ci sono gli spit, su roccia bella. Gogna, Grassi, Scotto, io e compagnia li abbiamo fatti nei posti infami.

Ieri ho conosciuto un signore di cinquant’anni che scala molto meglio di me. Però io ho fatto cose che lui non ha fatto. © Valerio Dutto
Quante vie hai aperto?
Sicuramente più di cento, direi centotrenta. Dalla Liguria al Monviso, a partire dal Beigua, passando per Finale e per le Alpi Liguri.
Andrea si ferma per indossare una vecchia bandana. Al mio sguardo interrogativo risponde in modo molto spontaneo «Ho freddo, poi mi viene mal di testa, sono delicato».
Corre voce che il tuo motto sia “ancora una e poi basta”
I bambini con le caramelle dicono “ancora una e poi basta”, poi continuano all’infinito. È così anche per me, con le scalate e con i libri che scrivo.

Ancora una e poi basta… © Valerio Dutto
A proposito di libri: sei un alpinista, eppure sei conosciuto per guide escursionistiche.
Di qualcosa bisogna pur campare. Al contrario di molti alpinisti a me piace camminare. Comunque le prime due guide che ho scritto erano alpinistiche: “La pietra di Finale”, con Alessandro Grillo, e “Montagne d’Oc”, con Fulvio Scotto e Nanni Villani.
Hai iniziato la professione di scrittore appena terminata l’università?
Collaboravo saltuariamente con alcune riviste di montagna, ma avevo sempre paura di non essere all’altezza. Un giorno mi lamentai con un’amica «Vorrei lavorare in una casa editrice che si occupa di montagna, ma non mi prenderanno». Lei mi chiese «L’hai mandata la domanda?», «No» risposi, «Allora non ti prenderanno mai».
Punto nell’orgoglio scrissi ad alcune case editrici. Mi risposero dalla De Agostini. Rimasero favorevolmente colpiti da libri e articoli che avevo pubblicato e nel 1990 mi assunsero. Mi trasferii a Novara con Laura, fidanzata che di lì a breve sarebbe diventata mia moglie: nebbie, risaie, clima rigido in inverno, anche peggio in estate con le zanzare. Resistetti tre anni, poi mi licenziai per fare il giornalista freelance di montagna. Poi arrivarono i figli, tre tra il 1996 e il 1999: Martina, Niccolò e Tommaso.
Fu a quel punto che ti dedicasti a tempo pieno alla scrittura?
Mentre sulle Dolomiti e sul Monte Bianco c’erano volumi meravigliosi, sulle nostre montagne c’erano libri grigi, con poche foto in bianco e nero, come quelli di Piera e Giorgio Boggia.
Un giorno conobbi Fabrizio Capecchi, autore di un bel volume sull’Appennino delle quattro province, con molte foto, testi ben fatti, buone ricerche, editato e pubblicato da solo. Mi disse che riusciva a guadagnare. Aver visto la sua esperienza mi aiutò: diventare editore di me stesso è stato un passaggio fondamentale.
Il primo libro di questa nuova fase fu “Vette delle Alpi dalla Liguria al Monviso”, pubblicato nel 1996. Partì bene, poi rallentò. È normale, ma ancora non lo sapevo. Mio padre mi disse «guarda che non guadagnerai abbastanza, hai investito soldi che non ti torneranno».
Io perseverai. Feci una guida sul massiccio del Beigua. Anche quella andò discretamente. Ma la svolta arrivò quando un amico mi disse «Perché non fai un libro di escursioni ai laghi?». Ovviamente lo feci a modo mio, a partire dal titolo: “Laghi, cascate e altre meraviglie”, che ricorda quelli della regista Lina Wertmüller tipo “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”. C’erano laghi, naturalmente, ma anche sentieri balcone, meraviglie naturali, gole, guglie, pinnacoli. Andai a cercare posti strani. Sulla copertina misi l’arco di Tortisse, sembrava di essere in America. Quel libro sfondò. I tempi erano maturi, cominciavo ad avere esperienza e una rete distributiva. In nemmeno sei mesi vendetti tremila copie.
Ti occupi tu di tutto?
Seguo i libri dall’inizio alla fine: progetto, uscite in montagna, foto, redazione, impaginazione. C’è chi come Stefano Ardito scrive un libro in due settimane, io ci metto un anno. Sono un perfezionista e perdo tempo in dettagli che nessuno noterà mai. Ti faccio un esempio: i nomi dei luoghi evidenziati non vanno mai a capo. Non è un caso: cambio le frasi apposta.
Infine mi occupo della distribuzione. Le prime librerie alle quali mi presentavo chiedevano chi era l’editore, mi dicevano che trattavano solo con i distributori. Per fortuna alcune mi hanno dato fiducia.
Oggi hai anche dei coautori.
Andrea Costa, un ingegnere savonese, uno a cui piace l’alpinismo senza essere un fenomeno, mi contattò per realizzare una guida alpinistica stile CAI, dalle vie facili fino al IV/V grado. L’idea non mi convinceva, ma rilanciai: e se dessimo seguito a “Intorno al Monviso” iniziando una vera collana?
Poi l’amico Nanni Villani mi parlò di Roberto Pockaj. Lo incontrai, è una persona dal carattere difficile, un solitario, ma bravissimo, molto preciso. Un puro escursionista che al contrario di me e Andrea Costa raramente esce dai sentieri. Abbiamo fatto una bella squadra partendo dal libro “Sentieri e meraviglie delle Alpi Marittime”.
Sull’Appennino ligure lavoro con Andrea Ferrando: ha l’età di mia figlia Martina, ma è un fenomeno. Ho scoperto il suo sito “L’Appenninista” durante i lockdown. Le relazioni sono scritte come nei miei libri, sembra un mio clone. Stiamo completando una collana di sei volumi su una catena alla quale il CAI ha dedicato appena mezza guida: non l’ha ritenuta degna di un libro intero. Ne sta venendo fuori uno dei miei lavori migliori.

Stiamo completando una collana di sei volumi su una catena alla quale il CAI ha dedicato appena mezza guida © Valerio Dutto
Hai pubblicato diverse collane, ma trovo curioso l’ordine apparentemente causale in cui hai scritto i volumi che le compongono: con la collana Sentieri e rifugi sei partito dal secondo volume, poi hai fatto il primo, poi il terzo, il quinto e infine il quarto. Che logica hai seguito?
Sono un anarchico. Partii dall’idea di descrivere il giro del Monviso, naturalmente a modo mio. Intitolai quel volume, che poi è diventato il numero cinque della collana, “Intorno al Monviso”. All’interno si trova il giro classico in due versioni, quello alpinistico e un anello ampio, bellissimo, che feci da solo. Poi racconto quello che c’è nei dintorni per spiegare che si può fare molto altro.
Apprezzo i tuoi libri, ma trovo quelli della collana Sentieri e rifugi un po’ caotici. Sono delle ricchissime enciclopedie, ma per trovare il percorso per arrivare su una cima devi leggere a pagina 96 la descrizione per arrivare al rifugio, poi a pagina 182 quella dal rifugio al colle, e infine a pagina 28 dal colle alla vetta.
Riprendono un po’ come impostazione le vecchie guide del CAI. Mi piace stimolare i lettori senza dargli troppo la pappa pronta. Come in scalata con gli spit: li ho usati in alcune fasi della mia vita, ma ora cerco di spiegare a chi viene con me come piazzare le protezioni tradizionali: friend, nut e chiodi. Dobbiamo creare un rapporto con la montagna, capirla, entrarci gradualmente. Tutto questo vale anche per i miei libri.
In questo mondo in continua evoluzione, come vedi il rapporto tra i libri, che alcuni ormai considerano sorpassati, e il Web?
È un problema che mi posi una decina di anni fa. Lavoravo con uno studio grafico che si occupava più di siti Web che di carta. Ricordo di aver pensato «Speriamo che i libri vadano avanti almeno per qualche anno, poi si vedrà». Sono passati dieci anni e li vendo ancora. Ricco non lo diventerò mai: prima avevo pochi titoli che vendevano molto, adesso ho tanti titoli che vendono meno. Però sono sempre qua, non mi faccio prendere dall’ansia.
Hai altri progetti in mente?
Vorrei fare una guida alpinistica sul Marguareis e una di scalate nel Beigua.

Non saranno per tutti, ma certamente le cime del massiccio del Marguareis esercitano un grande fascino © Valerio Dutto
Poi mi piacerebbe pubblicare un libro sui monoliti delle Alpi Liguri, dal finalese al Cros. Con le storie, gli aneddoti, le scalate, gli itinerari. Poi con Andrea Ferrando mi piacerebbe fare “Scalate facili e sentieri difficili” sull’Appennino Ligure. Libri poco commerciali forse, ma su cose che mi appassionano.

Vorrei pubblicare libri poco commerciali, ma su cose che mi appassionano. © Valerio Dutto
Sono cinquant’anni che vai in montagna, quarant’anni che scrivi libri, ti piace ancora?
Sì. Sono vecchio, diventerò decrepito, ma la montagna mi piace. Sicuramente il rapporto con mia figlia Martina, grande appassionata e promettente alpinista, mi stimola.

Sicuramente il rapporto con mia figlia Martina, grande appassionata e promettente alpinista, mi stimola. © Valerio Dutto
A Cogoleto gestisco insieme al gruppo Geki del CAI di Arenzano una struttura di arrampicata indoor. Ci passano dai bambini agli anziani. Come Bruno Moretto, che andato in pensione si iscrisse alla nostra palestra iniziando a scalare. Ora ha settantatré anni e oltre ad arrampicare pratica sci alpinismo a buon livello. Queste cose mi entusiasmano. Bambini, adulti, anziani: quando andiamo a mangiare una pizza chi ci vede si chiederà che cosa abbia da spartire un gruppo così eterogeneo.
Non bisogna far finta di essere giovani, ma coltivare sogni. Fin che hai voglia di fare e di sognare non sei veramente vecchio.
Siamo arrivati all’auto giusto in tempo per evitare il diluvio. Abbiamo trovato la giornata giusta e sicuramente si è trattato del posto migliore per fare quattro chiacchiere con chi conosce il massiccio del Marguareis come le sue tasche.
Andrea ne approfitta per mostrarmi la copia “zero” della nuova e completamente rivista edizione di “Sentieri e meraviglie delle Alpi Marittime”. La tipografia ha finito di stamparla proprio il giorno in cui abbiamo pubblicato questa chiacchierata.

La copia zero della nuova edizione di Sentieri e meraviglie delle Alpi Marittime © Valerio Dutto
Ringrazio Andrea per il tempo che ci ha dedicato. Ringrazio anche i nostri supporter: le Cuneotrekking stories esistono solo grazie a voi!

Arrivederci Marguareis! © Valerio Dutto