Gianni Bernardi è stato un protagonista dell’alpinismo locale della seconda metà del secolo scorso. Fondatore del gruppo “Cit ma bun” ha contribuito a strutturare il soccorso alpino cuneese e a far nascere la rivista Alpidoc. A chiacchierare con lui nella splendida cornice della Casaregina a Sant’Anna di Valdieri sono presenti la moglie Mariella Giraudo, che interviene in modo preciso e puntuale per aiutarci a mettere ordine tra le date, la guida alpina Adriano Ferrero e la compagna Sara Piccolo che hanno organizzato l’incontro e che mi aiutano a condurre la chiacchierata. Un vero e proprio tuffo nell’affascinante storia dell’alpinismo cuneese.
Come ti sei avvicinato alla montagna?
Da bambino andavo a San Giacomo di Entracque con i salesiani, ad appena sei anni mi portarono al Pagarì. Ma la passione per alpinismo e sci alpinismo me la trasmise l’amico Giorgio Tranchero. Non avevo mai messo un paio di sci ai piedi e mi portò a fare la Rocca dell’Abisso. La domenica dopo, visto che non mi aveva ammazzato, andammo sul monte Matto. Ci mettemmo sette ore a salire e sette ore e mezza a scendere, una tragedia. Poi mi portò ad arrampicare. La prima salita fu lo spigolo Vernet della Nasta, come settima uscita facemmo la nord del Corno Stella.
Chi era Giorgio Tranchero?
Aveva tre anni più di me. Lui era la mente che studiava gli itinerari, io il braccio perché arrampicavo un poco di più. Giorgio morì nel 1964: ad appena ventisette anni precipitò in un crepaccio scendendo dalla Dent d’Herens. Ci sarei dovuto essere anche io, una botta inaspettata che mi fece riflettere.
Prima della sua morte avete fatto salite di assoluto rilievo.
Vorrei sfatare un mito: a differenza dei francesi non è che abbiamo fatto chissà cosa. La generazione precedente alla nostra idealizzò in modo perfino esagerato Gianni Ellena e Matteo “Matè” Campia.
Campia è stato probabilmente il più grande rappresentante dell’alpinismo eroico delle Alpi cuneesi. Attivo nel periodo a cavallo della seconda guerra mondiale, solo oggi, dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2009, pur senza mettere in dubbio le indiscutibili imprese, sta emergendo al di fuori della cerchia di chi lo aveva conosciuto un atteggiamento che frenò le generazioni successive.
Parlavi loro della via Campia sul Corno Stella e ti dicevano «Per carità, vai ad ammazzarti». Eppure erano alpinisti validi, penso per esempio a Fredo Piuma, Vittorio Bollati e Gianni Pellutiè. Provammo la via Rabbi sulla parete nord del Corno Stella e la salimmo senza problemi. Quell’evento ruppe la bolla di cristallo, iniziarono a dire: «se l’hanno fatta loro possiamo farla anche noi». Si spezzò il mito delle vie impossibili. Parliamo dei primi anni sessanta, eravamo giovanissimi, non avevamo neanche vent’anni.

Provammo la via Rabbi sulla parete nord del Corno Stella e la salimmo senza problemi. Quell’evento ruppe la bolla di cristallo. © Valerio Dutto
Parlaci di Matteo Campia.
Aveva ventisei anni più di me. Quel che diceva era interpretato da tutti come legge, nessuno osava contraddirlo. Spesso quando qualcuno gli chiedeva informazioni su una via rispondeva di lasciar perdere, perché non sarebbe stato in grado di farla. Un atteggiamento che indubbiamente frenò la generazione successiva.
Era davvero in gamba, molto generoso, ma aveva un carattere impossibile, rigidissimo. Nel 1962 scrisse un articolo per la rivista Montagne Nostre. Mauro Manfredi, un letterato, molto preparato, glielo corresse. Ma chi aveva la forza di dirlo a Campia? Vittorio Bollati prese coraggio e gli disse che c’era qualcosa da modificare, senza cambiare il senso del discorso. Campia rispose stizzito: «No, o lo pubblicate così com’è o niente». Non ci fu verso: se ne andò dal CAI di Cuneo e si iscrisse a quello di Mondovì. Vi ritornò solo anni dopo come socio onorario.